APPENDICE a “La Mosca Cocchiera”
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In Afghanistan è riapparso il terrore. Si torna indietro. Una volta aboliti i modesti progressi compiuti negli ultimi vent’anni, ancora una volta le donne vivranno nella paura, recluse, prede di stupri, lapidate, uccise. I talebani hanno già le liste di quelle da eliminare o vendere come schiave del sesso. Le bambine non torneranno più a scuola per paura di essere intimorite o perfino uccise, e, quelle che cresceranno, lo faranno senza libri, cinema, televisione, musica, destinate ad essere rinchiuse dentro il buio di un burqa, la loro definitiva tomba dove si potrà solo immaginarle vive. Brutalmente sottomesse al mehram (padre, fratello, marito) che scandirà il passo di tutta la loro esistenza.
Quel dominio maschile sarà totalitario. Avrà una marca omosessuale. E non mi si fraintenda: sto parlando dell’atroce deformazione patriarcale di un’omosessualità assolutista e omofoba, propria dei sistemi politico-religiosi che, anche in Islam, ha comunque tratto radici dalla nostra cultura cristiano-giudaica: feroce, maniacale, furiosamente oppressiva e violentemente escludente per le donne. La stessa delirante patologia che origina i femminicidi anche in Occidente. Talmente dolorosa per l’umanità da non meritare spazio per la comprensione né per alcuna giustificazione, e che si situa nello stesso orribile luogo del genocidio.
Non ha un centro la tenebra: difficile trovare parole capaci di raccontarla.
Già vent’anni fa l’ho fatto con voce e parola di donna. Ancora una volta affermo che, quando scrivo, trasvivo oltre me stesso per trasformarmi in ciò che sto scrivendo. Importa il risultato.
Impressionato dalla follia del sistema talebano, scrissi questi testi nell’aprile del 2001 con l’obiettivo di ricavare fondi per il RAWA, l’Associazione rivoluzionaria delle donne dell’Afghanistan attiva fin dal 1978, che clandestinamente ha assistito e sostenuto le donne con libri, medicine e aiuti di ogni genere. Eroicamente, a rischio delle loro vite.Negli anni niente è cambiato.
Le parole di allora sono drammaticamente attuali, cambia solo lo scenario. Mentre scrivo, termina una guerra. Come ogni guerra mi ha visto distante dalle sue assurde motivazioni. Si preparano anni di dolore. Continueranno a cadere vittime innocenti. E follie religiose o idee di supremazia etnica ancora percorrono il mondo. Con gli stessi criminali che hanno consumato la terra, estirpato le foreste, contaminato i mari. Dietro queste idee si occulta il denaro del mercato dell’oppio, un oleodotto, i traffici delle mafie multinazionali, lo sfruttamento di un capitalismo assassino senza scrupoli. Questo è il potere del patriarcato.
Ma attenzione: non sono folli. Stanno soltanto freddamente difendendo il loro profitto.
Io non combatterò per loro.
Alberto Masala – 2021
ENGLISH VERSION
I have a sense of rejection and distance from “public” pain.
Jack Hirschman, the world’s great poet, died. My fundamental friend and fellow traveler for over 30 years. Amid his laughter, I always said that we had to thank him for allowing American poetry to close the century with his Arcanes, removing this load just in time from everyone else.
With him I have lived many of the most important and happy passages of my life.
We had spoken recently. I didn’t expect his sudden death of him, which, at least, happened in his sleep.
We loved each other right from our first meeting in Bologna.
Already the year before, in his absence, with Benn Posset (another dear friend of mine who is no longer here) I presented his book “What matters” published by Mongolfiera. It was 1990 and only two or three people in Italy had heard of Jack Hirschman.
Since then we have shared a life of reading, friendships, struggles, love, travel, existence …
I have a hundred photos that portray us, and in each one there is a part of us.
Now many write to me, or publish memories. Many expect me to write. I thank everyone, but I just want to be quiet for a while. I keep my pain. I don’t make it an event.
I apologize for this not knowing if it is good or bad.
I am silent. I distance myself from the “social-media” pain.
I only know that this is what I always do in the face of death.
A sweetest hug to dear Aggie.
(…) rivestire l’Etica della sua capacità fondamentale: quella che consente all’uomo il poter dire no. La scelta, il libero arbitrio, la possibilità di selezionare fra le alternative, sono le costituenti dell’esistenza umana e della formazione della propria Etica, che, nell’idea che mi sono formato, non viene da un dogma assoluto e contiene in sé la coscienza di avere sempre possibilità di modificarsi, perfezionarsi nel percorso.
Non ha regole date. Quando le crea, può accettarle solo come regole di passaggio, temporanee stratificazioni che preparano allo stadio successivo di coscienza, dove si dissolveranno creando le basi dei comportamenti concreti.
La volontà che l’alimenta è consapevole nell’organizzare le proprie tensioni quanto è distante dall’ego nel testimoniarle. Ad essa ci si accosta per scelta di appartenenza.
Ed è solo così che procediamo: prendendo parte, restando partigiani, appartenendo.
Il mondo nuovo puntata n.29 Artisti creatori di mondi Alberto Masala
Il poeta Raúl Zurita, durante le proteste in Cile. Foto da Twitter.
Metto qui anche il link dei pezzo appena composto ed eseguito dai Noise Of Trouble (miei compagni di strada e fratelli sempre presenti dove c’è da resistere).
Io non sto con i Pastori o meglio io non sto con quei pastori che qualche anno fa durante le manifestazione del MPS a Cagliari indossavano la maglia nera con la scritta Boia chi molla, o con l’immagine del duce, non sto con quei pastori che hanno continuato a votare la merda della merda in cambio delle briciole, con quelli che nascondevano l’inquinamento dei poligoni militari perchè non avrebbero corso il rischio di non vendere più nulla ma nel mentre avvelenavano altr* sard*, con quelli che nutrono le loro pecore con mangimi pieni di ogni porcheria provenienti da chissà dove, non sto con quei pastori che anche oggi si siedono al tavolo di chi li ha ridotti in miseria barattando la dignità, con quei pastori che ai bar tra una staffa e l’altra si riempiono la bocca di n*gr* di merda scaricando la colpa dei loro fallimenti a chi sta messo peggio, non sto con quelli che hanno fatto ogni tipo di manfrina pur di fregare soldi alla comunità europea, ma soprattutto non sto con quei pastori quelli leali quelli che amano il loro lavoro fatto di sacrificio e di sabati e domeniche a lavoro che non prendono le distanze da questi personaggi che continuano a distruggere quel poco di buono che questa terra regala.
Mi spiace ma io non seguo le pecore che oggi nei social riempiono di hastag la loro home in nome di una solidarietà ipocrita, ho imparato nella vita a prendere una posizione e di mantenerla anche a costo di diventare un rompicoglioni, ma sono anche pronto a schierarmi, a scendere nuovamente in piazza a patto che trovino il coraggio di mandare a cagare le mele marce che impediscono che una lotta di categoria si trasformi in una lotta di classe e di un popolo.
Caro Leonardo, voglio raccontarti un episodio che il tuo post mi ha fortemente richiamato.
Alla fine degli anni novanta, oltre vent’anni fa, fui invitato in uno spazio del Veneto, a Treviso, per una lettura e un incontro col pubblico. La sala era piena, e, scoprii dopo, affollata soprattutto da operai. Dopo la lettura dei miei testi, venne il momento del dialogo con quel pubblico vivace e partecipativo. Tutto molto bene fino a quando il discorso non si spostò sul tema del rapporto della cultura con la “classe operaia”, e, nello specifico, del lavoro da poeta e gli operai.
In quegli anni, già dal 1992, avevo scelto di abbandonare ogni altro mestiere precedente. Prima il teatro, poi un breve periodo di cinema, poi le direzioni artistiche anche internazionali, e così via… tutte cose che mi rendevano sufficientemente e, nonostante comportassero grandi sacrifici, mi facevano vivere di cultura.
Avevo deciso di dedicarmi esclusivamente alla scrittura. Una scelta radicale che mi costava molto sia dal punto di vista economico che fisico. Venivo da un periodo molto precario, ero stato senza casa, vivendo ospite o in squats per tre o quattro anni, appoggiandomi a situazioni di grande instabilità.
Quando feci quella scelta, non avevo denaro e mi sostentavo facendo lavori precari, quasi tutti a nero, di basso livello e davvero molto faticosi. Ma ero giovane e nel pieno delle forze. Affrontavo il mio destino con energia e positività. Lavoravo tutto il giorno fisicamente come una bestia, i lavori più infami e più pesanti, e poi, la sera, tornavo a casa a leggere, studiare, scrivere. Facevo due lavori: quello intellettuale e quello manuale senza farmi problemi. E li facevo a tempo pieno ambedue.
Ma torniamo all’incontro in Veneto. Ad un certo punto del dibattito, spinto da tante incalzanti insistenze, mi lasciai andare ad un’affermazione che suscitò quasi una rivolta. Con giovanile e infiammata incoscienza dissi che, sì… vivevo le mie giornate in mezzo agli operai, ma, tranne pochissime eccezioni, avevo poco a che spartire con la maggior parte di loro. Infatti, al contrario dei miei compagni di lavoro, non passavo i miei pomeriggi al bar a parlare di calcio, di macchine, di mangiate e bevute, e nemmeno mi fermavo con loro in branco a commentare i culi delle donne che passavano. Affermai che con loro avevo poco da spartire perché i più erano omofobi, sessisti, educavano male i loro figli dando pessimi esempi riguardo ai bisogni spirituali e intellettuali, trattavano con volgarità e arroganza le donne a partire dalle loro stesse mogli, e, se avevano due soldi in più, non compravano un libro: investivano nella macchina nuova o nel televisore più grande.
Insomma: non m’identificavo in nessun aspetto del loro modello di vita. Terminai con una frase epica:
”Lotto, continuerò a lottare. Ci sono e ci sarò. Saprò sempre da che parte stare. Ma per favore non fatemeli conoscere. Non voglio avere niente a che fare con quel mondo, altrimenti smetterò anche di lottare.”
Scoppiò un tumulto. Fui aggredito verbalmente e mi giocai all’istante le simpatie dell’uditorio.
Ma stavo annusando i tempi. Poco dopo, molti di quelli che mi aggredivano già votavano la Lega Nord, parlavano degli immigrati e dei “terroni” con un disprezzo non più celato, e finalmente si palesavano quelle tensioni che in loro erano state vigliaccamente soffocate. E non erano per niente diversi dai metalmeccanici per i quali ci mobilitavamo tutti, che in Sicilia, a Termini Imerese, intanto votavano Berlusconi con tensione unanime aspettando da lui chissà quale miracolo.
Insomma: oggi sto con i pastori come ieri stavo certamente con gli operai. E probabilmente quella volta in Veneto mi sbagliavo a parlare come ho fatto.
Ho capito che dobbiamo comunque portare avanti le tensioni, le idee, il pensiero, l’etica, la lotta.
Per questo continuiamo a resistere. In questo siamo partigiani.
Ti abbraccio fraternamente e ti ringrazio.
Alberto