Riporto la notizia e il commento INTERAMENTE da Gianluca Martino (@gianlucamart1) su twitter. Chi scrive è lui. La mia unica considerazione è che se ancora nel mondo esiste il nazismo, oggi uno dei suoi interpreti è il sionismo. E non ci sia qualcuno che stupidamente mi accusa di antisemitismo. Mentre pubblico questo intervento, penso ai miei cari amici intellettuali, scrittori e poeti israeliani e a quelli palestinesi, e soffro ugualmente per tutti loro. Penso a Mahmoud Darwish, poeta che ho nel cuore. RESTIAMO UMANI
LA STORIA DEI 40 BAMBINI DECAPITATI
di Gianluca Martino
Com’è andata realmente la storia dei 40 bambini decapitati e perché la maggioranza dei politici e dei media è un’accozzaglia di razzisti e pressappochisti. La notizia è partita da questi due fenomeni: David Zion e Nicole Zedek.
Il soldato israeliano David Ben Zion, intervistato dalla giornalista tv Nicole Zedek, dice che ci sono i corpi decapitati di 40 bambini. La giornalista, anche lei presente sul posto, invece di verificare, “spara” la notizia alla tv i24 news con il seguente commento: “I palestinesi sono degli animali, ma questo già lo sapevamo”.
La notizia viene ripresa dalla CNN e a ruota da tutti i media del mondo, arrivando a miliardi di persone. Scoppia l’indignazione “I palestinesi vanno puniti. Hanno fatto bene a bombardarli” dicono.
Passano ore e ore ma nessun giornalista pensa di andare a verificare. Un giovane giornalista israeliano, Oren Ziv, twitta timidamente (in sintesi) “Guardate che anch’io sono sul posto, non ho visto bambini decapitati. Qui i soldati e gli ufficiali dell’esercito non sanno nulla”.
Come se non bastasse il danno provocato dai media, scende in campo la classe politica più scarsa e ignorante dai tempi di Romolo Augustolo. La dichiarazione più indecente e pericolosa arriva da Biden che afferma di aver visto e verificato le foto dei bambini decapitati.A New York e altre città USA scendono in piazza per chiedere un genocidio, in India chiedono al proprio governo di intervenire militarmente in Palestina. In Italia, cani rabbiosi della politica e dei media di destra e di sinistra chiedono allegramente la Soluzione Finale.
Intanto veri giornalisti israeliani, come quelli di Haaretz e altri, pretendono le prove, pressano insistentemente lo stato maggiore dell’esercito che comunica di non avere elementi a riguardo. Intervistano il soldato David Ben Zion che ora dichiara di non aver visto personalmente i corpi decapitati ma che gli è stato riferito da alcuni commilitoni a lui sconosciuti.
Scoprono che il soldato è un fanatico estremista di destra, fomentatore d’odio che da anni incita, anche sui social, allo sterminio dei palestinesi.
Il danno è ormai irreparabile. Come se non bastasse l’avvio del genocidio interno, si registrano numerosi casi di aggressioni a palestinesi residenti in occidente, mentre i media italiani continuano senza pudore a dare la notizia falsa omettendo di rettificarla.
Questa è la foto più apprezzata e diffusa sui social in questi giorni. La Soluzione Finale può proseguire senza intoppi, i suoi cantori a gettone di presenza hanno lavorato senza sosta e questi sono i frutti.
Il 14 dicembre, da Marcello Fois, ho ricevuto l’appello che metto qui in immagine. Ho pensato di aderire, ma anche di rispondere. Ecco qui sotto la mia risposta.
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A Marcello.
“nella vita spirituale si agisce, sì, da affaristi,
ma per antica tradizione si parla da idealisti”
(Musil)
Il tuo appello, conoscendoti da circa 40 anni, non giunge inaspettato. Di te ho visto tutto fin dall’inizio: percorsi, evoluzioni, cammino e passi. Grande generosità materiale in contrappeso ad altrettanta prudente accortezza intellettuale.
E stavolta ho avuto tre diverse reazioni:
“Ma neppure rispondo!” (No… Sarei sgarbato, apparirei presuntuoso… non è da me… in fondo sarebbe come non rispondere a un saluto. E non si fa).
“Firmo e taccio. Lascio perdere. Sto zitto”. (Eh no! Caspita! Tacere su quello che mi muove da mezzo secolo! La mia visione etica, la mia appartenenza… Io sono ancora Sardo).
“Firmo o non firmo, non importa… ma almeno rispondo”. (Negli anni te le ho lasciate passare tutte, davvero troppe, senza dire mai niente).
Per carità… l’appello è legittimo, giusto e condivisibile. Lo firmo senz’altro. Ma… tu non hai lo spessore etico per condurlo. Bisogna contestualizzarlo.
La chiamata, apparentemente generosa e patriottica, si colloca in un percorso che potrei descrivere nei particolari. È il procedere indefesso di una Mouche du coche, mirabilmente narrata da La Fontaine e ancor prima da Fedro. La famosa mosca cocchiera di cui parlavano Gramsci e Turati o, in letteratura, Carducci, riferendosi agli epigoni del Manzoni.
Da quando ti conosco, per te c’è sempre stato un cocchio su cui saltare, un cavallo da pungere all’orecchio, un atteggiarsi a questa nobile funzione.
Nessuno ha interpretato meglio questo ruolo. Fin dagli albori, quando sostenevi e diffondevi l’appello per un Assessore alla Cultura, socialista, sul quale ho un parere strettamente politico: il peggiore della storia di Bologna da tutti i tempi. Ma non posso fartene una colpa: arrivasti in città da giovane militante del PSI e quella rete ben attrezzata fu tua da subito, testa bassa e senso del dovere. Scendendo poi dal cocchio rapidamente, con un mirabile colpo di reni, appena prima che Craxi e Mani Pulite lo conducessero a schiantarsi in un precipizio. Era il cocchio sbagliato, e tu eri dotato di ancora giovani ali. Hop…! Un opportuno salto e via…
Il cocchio successivo era più stabile. Più cooperativo. Largo e solidissimo fin dal dopoguerra, e qui in Emilia ancora regge nonostante le evoluzioni e i cambi di modello della Ditta.
Il coraggio dell’arroganza fu sdoganato quando un democristiano, il miglior interprete di quelle attitudini, ne diventò il risolutivo Amministratore Delegato. A lui, almeno spiritualmente, ti riconosco ancora fedele. Mi colpì molto la tua rabbiosa difesa dei suoi referendum al tavolo di un’osteria. Da manzoniano convinto e militante, hai accolto i Renzi come modello, eleggendo nel percorso tutte le diverse Lucie (non importa di che sesso, non prendermi alla lettera) secondo l’utilità. Si passava risolutivamente dal “tengo famiglia” al più spietato “da ora finalmente va così, e così sarà”.
Tutto questo mentre la nostra terra intanto avanzava verso un disastro di entità terminale. Oggi, con la piena complicità politica espressa dal silenzio anche tuo, la mia Sardegna si conferma:
La zona d’Europa su cui (in rapporto al territorio) sono le più estese e invadenti basi militari di tutta Europa.
La maggiore vittima di pericolose e inquinanti esercitazioni (Teulada).
E se non bastasse, la colonia italiana (tale è) invasa dal turismo più becero e arrogante. Una terra cui si possono perfino cambiare i nomi dei luoghi senza suscitare reazioni. Per capirci ora immagina che l’Emilia, senza colpo ferire, sia ribattezzata col nome del suo supermercato più rappresentativo: COOPlandia. Così è successo in Costa Smeralda. È come vendersi la madre.
Ne deriva che le prospettive per i giovani, come in ogni colonia, sono soltanto quelle di servire i colonizzatori diventando loro guardiani, giardinieri o camerieri. I più svegli, se va bene, saranno gli chef che tu inviti a sottoscrivere l’appello. Niente da dire… mestieri dignitosissimi e perfino belli per chi li sceglie, ma a patto che non resti l’unica strada possibile. A proposito… Non ho capito perché insieme agli chef non inviti i grandi falegnami sardi, o i pastori (fra i migliori del mondo), o le progettiste di meravigliosi tappeti, e così via…
Marcello, non ti ho mai sentito denunciare questa situazione. Al contrario, in luogo di usare la parola COLONIA, ti sei reso profondamente complice con le tue chiamate alla Patria italiana. Non hai fatto altro che consolidare inesistenti radici per un popolo al quale erano imposte con la forza. Hai affiancato il colonizzatore e, casomai, gli hai spesso dato consigli per potersi mascherare meglio.
Hai fatto furbi outings (“Ho tradito”) che niente cambiavano del continuare a tradire. Senza vergognarti hai serialmente recitato in ruoli di menzogna (ne potrei citare una lunga collana, ultimo il tuo inesistente bilinguismo: “penso in sardo e devo tradurre in italiano”), avendo capito che per atteggiarsi basta mentire in luoghi dove nessuno può smentirti o rubacchiare un pochino le idee di quelli che, come me, non hanno voglia di smentirti. Una lezione questa che ha fatto scuola anche in altre/altri dopo di te.
Intanto il cocchio corre. E le mosche, ronzando con la bocca a tromba, con un ennesimo coup de théatre incitano il cavallo. Che faranno nelle soste? Riposeranno su ciò che il cavallo depone?
Anch’io dico sacrosanto ribellarsi, ma da 50 anni lo faccio con ben altri argomenti, quelli che tu non hai mai nemmeno sfiorato. Lo faccio, come sempre, perfino sotto il tuo sguardo di sufficienza per le donchisciottesche battaglie che io perdo e tu, prudentemente, non combatteresti mai.
Ora ti dedico alcune meritate citazioni che riportano il discorso alla sua oggettività. Ho tralasciato Gramsci e messo Turati che, da socialista, capisci molto meglio…
(…) Ma le mosche, per altro, le mosche cocchiere sono pur le male bestie e noiose! Si fermano alla prima osteria e van ronzando negli orecchi alla gente (Carducci 1897).
(…) una propaganda, che fa appello esclusivamente ai romanticismi impulsivi dei sofferenti, forse traduce, più che altro, la favola della “mosca cocchiera”, che presume di guidare, in codesto duplice solco, l’aratro della sedizione (Turati 1913).
Perciò sappi che, même si tu joues la mouche du coche, tu ne peux pas me tromper.
Il libro nasce dall’incontro tra i poeti Alberto Masala e Raùl Zurita, a cui si è aggiunta la partecipazione di Marco Colonna, con la composizione di un’opera ispirata alle loro poesie.
Ognuno ha composto sette quadri di città: oltre ai testi in italiano e spagnolo, il libro contiene la scrittura grafica delle partiture.
La poesia e la musica di questi autori si trovano davvero, e fuor di ogni retorica, a mappare luoghi diventati, o che sono da tempo immemore, invivibili. Li mappano, nella loro continua ribellione, per abitarli: sono tracce di un radicamento multiplo, ma che non rinnega, d’altra parte, il proprio nomadismo libertario di fondo. In questo paradosso, allora, abitare lo spazio della parola, del segno e del suono resta possibile perché alla base di queste manifestazioni artistiche non c’è una sterile rivendicazione identitaria, ma una molteplice esperienza di incontro.
(Dalla postfazione di Lorenzo Mari)
Marco Colonna, nato a Roma. Musicista, improvvisatore e interprete di vari strumenti ad ancia. Attivo fra la musica folk, jazz e la classica contemporanea è considerato uno dei musicisti più rappresentativi della sua generazione.
Lorenzo Mari, vive e lavora a Bologna. Traduce dallo spagnolo e dall’inglese. Ha curato l’edizione italiana di Zurita. Quattro poemi del poeta cileno Raul Zurita (Valigie Rosse, 2020), nella traduzione di Alberto Masala. Collabora con varie riviste online (Pulp libri, Fata Morgana web, Jacobin Italia).
Alberto Masala. Sardo, vive a Bologna. Poeta e scrittore plurilingue, traduttore. Pubblica in Italia, USA, Francia, Spagna, ed è in raccolte di molti altri Paesi dove ha agito nei principali luoghi della poesia e dell’arte.
Raúl Zurita Canessa. Cileno, fra i più importanti poeti contemporanei. Torturato durante la dittatura di Pinochet, la sua produzione è innovazione formale e strategia di resistenza. Candidato al Nobel, è Premio Nacional de Literatura, Premio José Lezama Lima, Premio Neruda, Premio Reina Sofía.
La favola del piccolo Mustafà e le fabbriche di bombe di Benigno Moi
“Noi però gli facciamo le protesi”, si potrebbe affermare (parafrasando il titolo dell’ottimo e recente libro di Francesco Filippi sul colonialismo italiano (1), osservando il trasporto con cui le tv e i giornali italiani hanno raccontato, quasi “autocelebrandosi come comunità di italiani”, la storia dell’arrivo in Italia del piccolo Mustafà al-Nazzal, il bambino siriano nato senza arti a causa dei gas sprigionati dalla bomba che ha colpito il mercato di Idlib, nella Siria nordoccidentale, dove quel giorno del 2016 si trovavano anche Munzir e Zeynep, i genitori del bambino. A causa di quel bombardamento il padre perse una gamba e la madre, incinta di Mustafà, rimase gravemente intossicata, tanto che è stata attribuita proprio a quell’evento l’origine della rarissima e terribile tetramelia di cui soffre il bambino.
Tanto di cappello, ovviamente, ai veri protagonisti di questa storia, dall’autore della straordinaria foto che ha fatto conoscere la storia di Mustafà e di suo padre Munzir, a quelli del Siena Awards Festival, che non si sono accontentati di premiare la foto ma hanno promosso la raccolta fondi necessaria a trasformare la voglia di vita testimoniata da padre e figlio in speranza concreta; dalla Arcidiocesi di Siena che ospita Mustafà e la sua famiglia allo straordinario staff del Centro Protesi Vigorso di Budrio, nel bolognese, che cercherà di ridare gambe e braccia a Mustafà, come fa da decenni in maniera encomiabile.
Ciò che infastidisce è la mancanza della relazione fra effetto e causa, la quasi unanime amnesia degli organi di stampa che non riescono ad indagare sulle cause che provocano le ferite e le mutilazioni dei tanti Mustafà che ogni giorno vengono colpiti, nella nostra sostanziale indifferenza.
Gli stessi giornali che ci mostrano il sorriso straordinario e contagioso di Mustafà sono magari finanziati dalle Banche armate (2) o accolgono nelle loro pagine la pubblicità di chi quelli ordigni di morte li produce (3). Quando banche armate o produttori non sono direttamente i loro editori.
Proprio nelle stesse ore in cui Mustafà si preparava a partire per l’Italia, e mentre l’ISIS si sta riprendendo parti delle regioni curde liberate anni fa nella nostra quasi totale indifferenza, (https://ilmanifesto.it/l-isis-assalta-il-carcere-prigionieri-in-rivolta-nel-rojava-e-battaglia/) a mettere un importante tassello nella necessità di saper collegare cause-effetto anche rispetto al dramma della famiglia di Mustafà, e a ricordarci che siamo parte della causa, è stata una fonte d’informazione non italiana, Jazeera English, la sezione in lingua inglese della tv del Qatar, col documentario di Lisa Camillo (4)“The Sardinian Factory of Death”, che fa raccontare direttamente a chi da anni vi si oppone cosa fa la fabbrica RWM di Domusnovas in Sardegna.
Tre mesi fa cominciammo una campagna di raccolta fondi per il #RAWA, l’Associazione delle donne Afghane.
Siamo stati travolti dai likes, ma dopo un periodo di sporadiche (e generose) adesioni, tutto si è spento… fermato… Cosa è successo? Le donne Afghane non hanno più bisogno? I talebani hanno finalmente concordato per un sistema che rispetti le donne e dia loro il ruolo che meritano? I regimi teocratici stanno per scomparire? Finalmente le bambine potranno andare a scuola, le donne al cinema e ai concerti, potranno lavorare e ci sarà un presidente donna?
Niente di tutto questo. La situazione non è cambiata, anzi… ora che si sono spenti i fari dei media e azzerati i LIKES, tutto è come prima. Anzi PEGGIO perché ormai l’opinione pubblica è distratta da altre cose. Pensavate che con un Like si risolvesse la situazione? No… è solo servito a scuotervi la coscienza per pochissimi secondi. A me il vostro “mi piace” non sposta nulla, anzi… ho pure il fastidio di dover pensare e pubblicare i post anche quando non ne avrei voglia. Alle donne Afghane invece la vostra offerta cambia molto.
NON CERCHIAMO LIKES MA SOSTEGNO CONCRETO
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All’indirizzo https://bit.ly/sosrawa è possibile sostenere il RAWA (Revolutionary Association of Women from Afghanistan) aderendo ad un’azione artistica condivisa.
Tramite una donazione minima di 10 € otterrai una doppia opera comprendente:
– Il libro “Taliban” di Alberto Masala (introduzione di Jack Hirschman e copertina di Fabiola Ledda, in quattro versioni: Italiano, Inglese, Francese, Spagnolo);
– L’opera “L’ombra dei suoi passi” di Marco Colonna, da lui eseguita al clarinetto con Giulia Cianca (voce), Mario Cianca (contrabbasso), Ivo Cavallo (percussioni).
Come per l’edizione di vent’anni fa, niente andrà agli autori.
Collegandoti al link, potrai scaricare l’opera – libro e disco insieme – cliccando su “Buy Digital Album” e il ricavato delle donazioni sarà versato interamente al RAWA.
Aiutiamo la resistenza delle donne, sostieni il RAWA.
Oggi è il compleanno di Jack Hirschman. Il mio amico Jack avrebbe compiuto 88 anni. Il dolore per la sua scomparsa è intatto, profondo, grande.
La sera, dopo le letture e la cena, arrivati ai giri di grappe e vodka, cantavamo sempre a squarciagola e lui, che amava molto le canzoni di Theodorakis, era contento di avere in me un complice.
Ho scritto il testo che consiglio di ascoltare nel file sonoro:
ο Καημός – per Jack
Non siamo gli autori del nostro dolore, ma solo spettatori passivi e sofferenti.
Negli ultimi anni sono mancati molti tra i miei amici più cari. Scrittori, poeti, musicisti, con cui ho vissuto parti importanti della vita. Ogni tanto qualcuno mi chiama a ricordarli. E ogni volta che tento di farlo, rinnovo in me l’intero dolore della loro mancanza. Per questo non lo faccio volentieri.
Ma il mio silenzio ha anche altri motivi.
La morte impedisce che la parola di chi vi dimora possa tornare a emergere. A risuonare. Ostruisce per sempre gli interstizi che fino a poco prima erano attraversati dalla voce. Nell’oscurità della morte non risuona più nessun dettaglio, nessuna sfumatura del suono, nessuna risata. Tutto resta solo nella memoria. Finché potremo.
Perciò non si può parlare con la morte. Non si riesce a parlare con il caro amico. Le domande che continuiamo a rivolgergli non si trasformano più in dialogo. Resteranno per sempre senza risposta.
Jack era uno dei miei amici più cari. Per una trentina d’anni abbiamo condiviso momenti di poesia e di vita. Io ho presentato il suo primo libro italiano, “Quello che conta” tradotto per Mongolfiera da Bruno Gullì. La mia casa era un suo punto fermo. Era la sua casa. Con lui ho condiviso letture per decenni. Lui ha tradotto due miei libri e ne ha curato amorevolmente un terzo.
Ma non userò la sua morte per parlare di me, per apparire. E chiedo scusa alla cara Aggie, a tutti gli amici di Jack se taccio. Voi fate bene a parlare. La profondità del vostro amore è evidente. Però cercate di capirmi: oltre il mio sentire, tacere è anche parte della mia formazione culturale. Fino a cinquant’anni fa, nella cultura sarda, alcune donne erano pagate per piangere pubblicamente cantando il dolore. Mia madre, quando morì mio padre, finché gli estranei venivano per le condoglianze, si chiuse in una stanza. Non uscì per molti giorni. Disse che non doveva dare spettacolo con il suo pianto.
Per questo il mio dolore tace. Ogni mio dolore tace e non riesce a contenere l’eccesso di parole.
Jack, seduto nel mio cuore, lo sa. E ancora cantiamo ο Καημός.
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We are not the authors of our pain, but only passive and suffering spectators.
In recent years I have missed many of my closest friends. Writers, poets, musicians, with whom I lived important parts of my life. Every once in a while they call me to remember them. And every time I try to do so, I renew in myself the whole pain of their lack. That’s why I don’t like it.
But my silence has others more reasons.
Death prevents that the word of those who live there can come back to emerge. To resonate. Death obstructs forever the interstices that until recently were crossed by voice. In the darkness of death, no more details resound, no nuance of sound, no laughter. All this will remain only in the memory. As long as we can. Therefore, we cannot speak with the death. We cannot speak with our dear friend. The questions we continue to ask him are no longer transformed into dialogue. They will remain forever unanswered.
Jack was one of my closest friends. For about thirty years we shared moments of poetry and life. I was the one who presented his first Italian book, “Quello che conta” translated for Mongolfiera by Bruno Gullì. My home was his home. I shared public readings with him for decades. He translated two of my books and lovingly edited a third.
But I will not use his death to talk about me, to appear. And I apologize to dear Aggie and all of Jack’s friends for that. You are right to speak. The depth of your love for Jack is evident. But try to understand me: besides my feeling, being silent is also part of my cultural formation. Until fifty years ago, in Sardinian culture, women were paid specifically to cry publicly singing the pain. My mother, when my father died, locked herself for many days in a room; she didn’t leave until people came with condolences. She said she didn’t have to put on a show with her crying.
That is why my pain is silent. My every pain is silent and cannot contain the excess of words.
Jack, sitting in my heart, this knows. We are still singing ο Καημός.
Per sostenere il RAWA (Revolutionary Association of Women from Afghanistan) offriamo un’azione artistica condivisa:
Alberto Masala, col libro Taliban(a questo link la sua storia) introduzione di Jack Hirschman e copertina di Fabiola Ledda, in quattro versioni (Italiano, Inglese, Francese, Spagnolo).
Marco Colonna, che ha composto l’opera L’ombra dei suoi passi, da lui eseguita al clarinetto con Giulia Cianca (voce), Mario Cianca (contrabbasso), Ivo Cavallo (percussioni).
Come per l’edizione di vent’anni fa, niente andrà a noi. Voi scaricate l’opera, libro e disco insieme, noi versiamo il ricavato al RAWA
In Afghanistan è riapparso il terrore. Si torna indietro. Una volta aboliti i modesti progressi compiuti negli ultimi vent’anni, ancora una volta le donne vivranno nella paura, recluse, prede di stupri, lapidate, uccise. I talebani hanno già le liste di quelle da eliminare o vendere come schiave del sesso. Le bambine non torneranno più a scuola per paura di essere intimorite o perfino uccise, e, quelle che cresceranno, lo faranno senza libri, cinema, televisione, musica, destinate ad essere rinchiuse dentro il buio di un burqa, la loro definitiva tomba dove si potrà solo immaginarle vive. Brutalmente sottomesse al mehram (padre, fratello, marito) che scandirà il passo di tutta la loro esistenza.
Quel dominio maschile sarà totalitario. Avrà una marca omosessuale. E non mi si fraintenda: sto parlando dell’atroce deformazione patriarcale di un’omosessualità assolutista e omofoba, propria dei sistemi politico-religiosi che, anche in Islam, ha comunque tratto radici dalla nostra cultura cristiano-giudaica: feroce, maniacale, furiosamente oppressiva e violentemente escludente per le donne. La stessa delirante patologia che origina i femminicidi anche in Occidente. Talmente dolorosa per l’umanità da non meritare spazio per la comprensione né per alcuna giustificazione, e che si situa nello stesso orribile luogo del genocidio.
Non ha un centro la tenebra: difficile trovare parole capaci di raccontarla.
Già vent’anni fa l’ho fatto con voce e parola di donna. Ancora una volta affermo che, quando scrivo, trasvivo oltre me stesso per trasformarmi in ciò che sto scrivendo. Importa il risultato.
Impressionato dalla follia del sistema talebano, scrissi questi testi nell’aprile del 2001 con l’obiettivo di ricavare fondi per il RAWA, l’Associazione rivoluzionaria delle donne dell’Afghanistan attiva fin dal 1978, che clandestinamente ha assistito e sostenuto le donne con libri, medicine e aiuti di ogni genere. Eroicamente, a rischio delle loro vite.
Negli anni niente è cambiato.
Le parole di allora sono drammaticamente attuali, cambia solo lo scenario. Mentre scrivo, termina una guerra. Come ogni guerra mi ha visto distante dalle sue assurde motivazioni. Si preparano anni di dolore. Continueranno a cadere vittime innocenti. E follie religiose o idee di supremazia etnica ancora percorrono il mondo. Con gli stessi criminali che hanno consumato la terra, estirpato le foreste, contaminato i mari. Dietro queste idee si occulta il denaro del mercato dell’oppio, un oleodotto, i traffici delle mafie multinazionali, lo sfruttamento di un capitalismo assassino senza scrupoli. Questo è il potere del patriarcato.
Ma attenzione: non sono folli. Stanno soltanto freddamente difendendo il loro profitto.
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