I golpisti del Sahel e il loro piano genocida

di Walet Ekadey (traduzione italiana Alberto Masala)
lunedì 12 agosto 2024

I miei cari amici Hawad e Hélène Claudot-Hawad mi hanno spedito un articolo che ho subito tradotto. Spero che venga diffuso e che il mondo Occidentale si renda conto di che disastri sta combinando in Africa. Sterminio e genocidio dei popoli nomadi del deserto. E intorno il silenzio complice del mondo.
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Equiparando ai «terroristi» i movimenti indipendentisti dell’Azawad che lottano da decenni per il riconoscimento dei diritti umani, sociali, economici e politici del loro popolo, la giunta maliana ha riavviato una guerra coloniale, atroce e asimmetrica, condotta dall’esercito principalmente contro i civili indifesi. Intanto prosperano i gruppi jihadisti (Stato Islamico e JNIM affiliati ad Al-Qaeda), oggi presenti a poche decine di chilometri dalla capitale Bamako, senza che le autorità si mostrino capaci di fermarli.

Vittime civili dell’attacco dei droni a Tin-Blagh (marzo 2024)

Sia in Mali, che in Burkina Faso e in Niger, i golpisti militari che hanno preso il potere e si sono confederati militarmente in seno all’Alleanza degli Stati del Sahel, dimostrano attraverso le loro decisioni e i loro propositi bellicosi in stile coloniale che fanno affidamento solo sulla forza per risolvere i conflitti e per annientare qualsiasi contestazione al loro governo. 
In Mali, le truppe dell’esercito nazionale associate ai mercenari russi Wagner, pagati a caro prezzo dalle casse statali a detrimento della popolazione, hanno instaurato l’arbitrarietà e il terrore nel centro e nel nord del paese, lasciando agli abitanti solo due opzioni: fuggire o morire 1.
Il modus operandi di queste truppe aggressive per creare terrore è simile a quello dei gruppi jihadisti: rapimenti, amputazioni, esecuzioni sommarie, decapitazione, furto di bestiame, distruzione di case, cisterne d’acqua, magazzini, incendi di cibo e pascoli… Queste pratiche sono accresciute da ulteriori crudeltà come l’occultamento di ordigni esplosivi nei cadaveri, la caccia all’uomo inseguito come selvaggina da schiacciare, gli stupri, il cannibalismo filmato in diretta da soldati maliani e burkinabe ubriachi di potere. Cancellando con un colpo di mano l’Accordo di Algeri del 2015 che in Mali aveva messo fine agli scontri con i gruppi indipendentisti, la giunta dimostra innanzitutto la sua immaturità e inesperienza politica, precipitando il paese nella violenza e, ancora una volta, nel pericolo di disgregazione.

Va detto che fin dalla loro istituzione le tre giunte hanno lavorato per costruire una vera e propria cupola di silenzio attorno alle loro azioni: arresto di giornalisti, messa al bando di partiti politici, soppressione di associazioni per i diritti umani, sradicamento di ogni voce critica, reclusione o sparizione forzata degli oppositori, espulsione degli osservatori esterni.
In che misura la ricetta del silenzio imposta dai golpe saheliani agli avvenimenti più recenti riuscirà ad anestetizzare l’arena nazionale e internazionale? Fino a che punto le potenze internazionali che pretendono di difendere i diritti umani – ma sperano di reintrodursi sulla scena sahariana da cui sono state espulse per l’iniquità dei loro rapporti con questi nuovi Stati da loro stessi creati dal nulla – taceranno di fronte agli abusi di questi regimi militari che da quasi 9 mesi massacrano le popolazioni del nord per annettere le loro terre ricche di minerali, merce di scambio con le milizie russe che ne proteggono il potere? 

Uno dei 27 civili giustiziati dai FAMA e Wagner il 19 dicembre nell’Azawad

Ecco alcuni di questi silenzi urlanti sulle più recenti offensive condotte dai militari saheliani contro gli abitanti delle regioni del nord 2. Nel maggio 2024, quando le Forze armate del Burkina Faso hanno giustiziato nella totale impunità centinaia Ie civili nella zona di Dori 3, l’ONU non ha detto niente, la CEDEAO non ha detto niente, gli Stati vicini non hanno detto niente, la Francia non ha detto niente, gli USA non hanno detto niente, nessuno ha detto niente.

Uno dei 27 civili giustiziati dai FAMA e Wagner il 19 dicembre nell’Azawad

Quando il 28 maggio 2024, le Forze di Difesa e Sicurezza del Niger hanno compiuto l’esecuzione sommaria di 10 civili (9 Tuareg e 1 Peul) a Torodi, nella regione di Tillabéri, l’ONU non ha detto niente, la CEDEAO non ha detto niente, gli Stati vicini non hanno detto niente, la Francia non ha detto niente, gli USA non hanno detto niente, nessuno ha detto niente. Nessuno tranne Alhassane Intinicar, presidente del Partito nigerino per la Pace e lo Sviluppo, che si è recato dai parenti delle vittime per raccogliere le loro testimonianze. È stato arrestato pochi giorni dopo e condannato a Niamey il 9 luglio a un anno di prigione per «criminalità informatica» e «diffusione di dati che potrebbero disturbare l’ordine pubblico e minare la dignità umana».

Quando a fine giugno 2024, le Forze armate maliane e i loro sostituti russi della milizia Wagner hanno massacrato intorno ad Abeïbara, nella regione di Kidal, circa 70 Tuareg, per lo più civili 4, l’ONU non ha detto niente, la CEDEAO non ha detto niente, gli Stati vicini non hanno detto niente, la Francia non ha detto niente, gli USA non hanno detto niente, nessuno ha detto niente.

Quando, il 20 luglio 2024, le Forze armate maliane e i loro sostituti russi della milizia Wagner hanno hanno continuato le loro sanguinose atrocità contro i civili a Tin Zaouaten uccidendo a bruciapelo Intisniyaken ag Hamady, capo della frazione, e altri 7 civili incontrati per strada, l’ONU non ha detto niente, la CEDEAO non ha detto niente, gli Stati vicini non hanno detto niente, la Francia non ha detto niente, gli USA non hanno detto niente, nessuno ha detto niente.

Quando, nel luglio 2024, le Forze armate maliane e i loro sostituti russi della milizia Wagner hanno giustiziato freddamente, nelle aree di Abeïbera e di Aguelhok, 82 persone (identificate per nome) e decine d’altri resi irriconoscibili perché carbonizzati, l’ONU non ha detto niente, la CEDEAO non ha detto niente, gli Stati vicini non hanno detto niente, la Francia non ha detto niente, gli USA non hanno detto niente, nessuno ha detto niente.

Quando le Forze armate maliane e i loro sostituti russi della milizia Wagner nel nord e nel centro del paese hanno colpito gli accampamenti e i villaggi Tuareg, Arabi e Peul  con i loro droni di fabbricazione turca uccidendo diverse centinaia di persone, in particolare donne e bambini, l’ONU non ha detto niente, la CEDEAO non ha detto niente, gli Stati vicini non hanno detto niente, la Francia non ha detto niente, gli USA non hanno detto niente, nessuno ha detto niente.

Quando dal 25 al 27 luglio, le Forze armate maliane e i loro sostituti russi della milizia Wagner partiti all’assalto di Tin Zaouaten hanno subito una grave sconfitta militare e sono stati messi in rotta da alcune centinaia di combattenti tuareg del CSP-DPA  (Quadro strategico per la difesa del popolo dell’Azawad), il generale Tiani, golpista del vicino Stato del Niger, ha fatto propria la retorica maliana. Ha espresso il suo sgomento e la sua compassione ai leader del Mali e della Russia per «l’attacco terrorista barbaro, codardo e ignobile, da parte di una coalizione di forze terroristiche» il 25 luglio nella zona di Tin Zaouaten (ActuNiger, 31/07/24). La CEDEAO non è da meno; omettendo la presenza dei supplenti russi, essa «condanna fermamente i recenti attacchi contro membri delle forze di difesa e sicurezza maliane a Tin Zaouatine nel nord del paese, che hanno causato numerose vittime tra le forze maliane. La Commissione CEDEAO presenta le sue sincere condoglianze al governo e al popolo della Repubblica del Mali, nonché alle famiglie delle vittime», secondo il comunicato ADS, 7/08/24.

Nemmeno gli animali sono sfuggiti alle pratiche omicide di FAMA e Wagner

La cocente sconfitta dell’esercito maliano e dei suoi mercenari stranieri ha lasciato sul terreno oltre 80 morti russi, più di 45 maliani, circa 30 feriti evacuati e una decina di prigionieri 5. Subito nello spazio mediatico si è scatenata la consueta campagna di denigrazione dei fronti di resistenza tuareg:
1. il CSP sarebbe affiliato agli jihadisti del JNIM (Jamāʿat nuṣrat al-islām wal-muslimīn), propaganda lanciata dal sito di supporto ai mercenari Wagner e ripetuta più volte dalla stampa internazionale. Anche se queste due organizzazioni combattono l’esercito maliano, le loro azioni non sono state coordinate negli eventi di Tin Zaouaten ed è stato dopo lo scontro con il CSP che i mercenari russi e i soldati maliani che fuggivano dal combattimento sono stati attaccati dal JNIM. 
2. il CSP avrebbe beneficiato – si attendono prove tangibili che per ora si limitano a dichiarazioni – di un sostegno degli ucraini sul piano dell’intelligence fino all’idea assurda, per chi conosce il terreno, di istruttori ucraini presenti sul luogo, portando insieme all’Ucraina ad una crisi diplomatica che coinvolge gli altri Stati dell’Africa Occidentale.
3. infine, il CSP avrebbe ricevuto l’aiuto del deserto stesso: terreno morbido che provoca l’insabbiamento, suolo roccioso che frena la velocità, vento di sabbia che gli avrebbe permesso di raccogliere un numero impressionante di combattenti probabilmente usciti da dune immaginarie, introvabili in quel luogo. 

Tali supposizioni, per quanto immaginarie, richiamano l’intensa propaganda dello Stato coloniale e poi degli Stati eredi della colonizzazione, che hanno sempre diffamato le lotte tuareg, cercando di farle passare come guerre sorpassate di etnie, razze, caste, di un mondo passato contro il mondo «moderno», o ancora di gruppi certamente strumentalizzati da potenze internazionali occulte. L’obiettivo resta sempre lo stesso: negare qualsiasi significato politico a questi movimenti di resistenza a lungo termine. L’unica prospettiva delle autorità di fronte alla protesta è stata quella di preferire l’opzione genocida ai colloqui e ai negoziati 6. Una tendenza confermata dall’interesse del ministro della Difesa nigerino, generale Salifou Modi, per il modello di gestione degli uiguri da parte del governo cinese, durante la sua recente visita in Cina nel giugno 2024 7.
Quando il 30 luglio 2024, come rappresaglia per la debacle di Tin Zaouaten, l’esercito maliano, con il supporto delle forze militari alleate del Burkina Faso, ha effettuato un attacco con droni a Tin Zaouaten, ha ucciso solo dei civili (da 6 a decine di vittime secondo le fonti) e costringe i compagni a fuggire col rischio di morire di sete nel deserto. Sono tutti minatori subsahariani originari del Niger, Sudan e Ciad. Su questo fatto le autorità del Mali e del Burkina Faso sono rimaste in silenzio, l’ONU non ha detto niente, la CEDEAO non ha detto niente, gli Stati vicini non hanno detto niente, la Francia non ha detto niente, gli USA non hanno detto niente, nessuno ha detto niente. 

Solo gli abitanti del deserto assediati dalle forze russo-maliane e dai gruppi jihadisti urlano, resistono, piangono. Ma le loro voci restano finora inascoltate.

Saccheggio di negozi da parte dei soldati della FAMA e dei mercenari Wagner
Una donna umiliata dai mercenari a Tin Zawatin

https://www.facebook.com/watch/?v=347153677691346
La notte del 16 marzo 2024 a Amasrakad, nei pressi di Gao, un drone tra i civili ha fatto 8 feriti e 13 morti, sopratutto dei bambini. Communiqué de presse d’Amnesty International

Alcune immagini che mostrano la crudeltà dei FAMA e di Wagner anche nei confronti degli animali

qui l’articolo originale: https://tamazgha.fr/Rayer-de-la-carte-le-monde-pastoral-et-en-particulier-touareg.html
e qui molti importanti reportages: https://www.facebook.com/agmohamed.abdollah.5

  1. https://tamazgha.fr/FUIR-OU-MOURIR.html ↩︎
  2. I fatti citati si riferiscono ai dati documentati in maniera dettagliata dall’Associazione Kel Akal, da Human Rights Watch e da diversi testimoni diretti degli avvenimenti con cui sono in contatto. ↩︎
  3. Vedere il rapporto di Human Rights Watch che documenta l’esecuzione a fine febbraio da parte dell’esercito del Burkina di 223 civili, fra cui 56 bambini ; France 24: https://urlz.fr/rDev ↩︎
  4. David Baché, Mali : una sessantina di corpi ritrovati vicino a Abeibara, nella regione di Kidal, RFI, 5 juillet 2024. ↩︎
  5. Vedere tra gli altri il rapporto del collettivo All eyes on Wagner, https://alleyesonwagner.org/2024/08/02/ordre-de-debandade-en-azawad/ e il bilancio dettagliato fornito dalle CSP da confrontare con le dichiarazioni delle autorità maliane. ↩︎
  6. Vedere per esempio le testimonianze sulla gestione genocida del conflitto nel 1990 dalle autorità maliane, in Touaregs. Voix solitaires sous l’horizon confisqué, Survival International, 1996, https://shs.hal.science/halshs-00293895/document ↩︎
  7. https://mondafrique.com/decryptage/serie-niger-5-5-la-chine-premier-partenaire-strategique/ ↩︎

Riporto la notizia e il commento INTERAMENTE da Gianluca Martino (@gianlucamart1) su twitter. Chi scrive è lui. La mia unica considerazione è che se ancora nel mondo esiste il nazismo, oggi uno dei suoi interpreti è il sionismo. E non ci sia qualcuno che stupidamente mi accusa di antisemitismo. Mentre pubblico questo intervento, penso ai miei cari amici intellettuali, scrittori e poeti israeliani e a quelli palestinesi, e soffro ugualmente per tutti loro. Penso a Mahmoud Darwish, poeta che ho nel cuore. RESTIAMO UMANI

LA STORIA DEI 40 BAMBINI DECAPITATI
di Gianluca Martino

Com’è andata realmente la storia dei 40 bambini decapitati e perché la maggioranza dei politici e dei media è un’accozzaglia di razzisti e pressappochisti. La notizia è partita da questi due fenomeni: David Zion e Nicole Zedek.

Il soldato israeliano David Ben Zion, intervistato dalla giornalista tv Nicole Zedek, dice che ci sono i corpi decapitati di 40 bambini. La giornalista, anche lei presente sul posto, invece di verificare, “spara” la notizia alla tv i24 news con il seguente commento: “I palestinesi sono degli animali, ma questo già lo sapevamo”.

La notizia viene ripresa dalla CNN e a ruota da tutti i media del mondo, arrivando a miliardi di persone. Scoppia l’indignazione “I palestinesi vanno puniti. Hanno fatto bene a bombardarli” dicono.

Passano ore e ore ma nessun giornalista pensa di andare a verificare. Un giovane giornalista israeliano, Oren Ziv, twitta timidamente (in sintesi) “Guardate che anch’io sono sul posto, non ho visto bambini decapitati. Qui i soldati e gli ufficiali dell’esercito non sanno nulla”.

Come se non bastasse il danno provocato dai media, scende in campo la classe politica più scarsa e ignorante dai tempi di Romolo Augustolo. La dichiarazione più indecente e pericolosa arriva da Biden che afferma di aver visto e verificato le foto dei bambini decapitati.A New York e altre città USA scendono in piazza per chiedere un genocidio, in India chiedono al proprio governo di intervenire militarmente in Palestina. In Italia, cani rabbiosi della politica e dei media di destra e di sinistra chiedono allegramente la Soluzione Finale.

Intanto veri giornalisti israeliani, come quelli di Haaretz e altri, pretendono le prove, pressano insistentemente lo stato maggiore dell’esercito che comunica di non avere elementi a riguardo. Intervistano il soldato David Ben Zion che ora dichiara di non aver visto personalmente i corpi decapitati ma che gli è stato riferito da alcuni commilitoni a lui sconosciuti.

Scoprono che il soldato è un fanatico estremista di destra, fomentatore d’odio che da anni incita, anche sui social, allo sterminio dei palestinesi.

Il danno è ormai irreparabile. Come se non bastasse l’avvio del genocidio interno, si registrano numerosi casi di aggressioni a palestinesi residenti in occidente, mentre i media italiani continuano senza pudore a dare la notizia falsa omettendo di rettificarla.

Questa è la foto più apprezzata e diffusa sui social in questi giorni. La Soluzione Finale può proseguire senza intoppi, i suoi cantori a gettone di presenza hanno lavorato senza sosta e questi sono i frutti.

da Israele: riporto integralmente un articolo di Carlo M. Miele – l’articolo originale è su Osservatorio Iraq

31 maggio 2010

“La versione israeliana è assurda. Israele sostiene che i suoi soldati sono stati aggrediti, ma le immagini che vengono trasmesse in queste ore dai media internazionali parlano chiaro: c’è stato l’assalto da parte delle forze speciali che si sono calate da un elicottero, e sono state queste ad aprire il fuoco sui passeggeri inermi. Non è possibile capire al momento l’esatta dinamica dell’incidente, ma l’idea che siano stati gli attivisti ad aggredire i soldati israeliani è semplicemente assurda”.

Vittorio Arrigoni parla da Gaza dove da tempo è impegnato come cooperante. In queste ore, insieme agli altri attivisti del Free Gaza Movement, sta seguendo le sorti della Freedom Flotilla, la spedizione internazionale intenzionata a rompere l’assedio su Gaza e assaltata la notte scorsa dalla marina israeliana.

“Siamo in costante collegamento con le imbarcazioni che si trovano ancora a Cipro, in attesa di partire per Gaza, ma non è possibile parlare con coloro che si trovano a bordo delle imbarcazioni sequestrate, e portate nel porto di Ashdod”, afferma.

Secondo la Rete romana di sostegno alla popolazione palestinese, che sta monitorando da giorni la missione della Freedom Flotilla, a bordo della spedizione ci sarebbero sei italiani, ma nessuno di loro risulterebbe nell’elenco di vittime e feriti.

“In questo momento – dice Alessandra, portavoce della Rete –  è impossibile parlare con coloro che si trovavano a bordo delle navi. Non sappiamo niente di loro, salvo che sono stati letteralmente sequestrati e condotti nel porto israeliano di Ashdod, per essere interrogati. Si tratta di una sorta di carcere preventivo. E Israele ha annunciato anche che avvierà dei procedimenti giudiziari contro gli attivisti, che sarebbero accusati di ‘avere aggredito’ i suoi soldati”.

Israele afferma che a bordo delle imbarcazioni sequestrate vi fossero anche delle armi.

“È un accusa ridicola – dice ancora Arrigoni – perché prima di lasciare i porti di partenza le navi vengono perquisite da cima a fondo, proprio per assicurarsi che nel carico non vi sia nulla di illegale. Ed è priva di fondamento anche l’idea della minaccia posta alla sicurezza di Israele, visto che le imbarcazioni erano pacificamente dirette verso Gaza, senza mai entrate in acque israeliane, e sono state aggredite mentre si trovavano in acque internazionali, a 75 miglia dalle coste della Palestina”.

Israele parla di una “provocazione” da parte della missione internazionale, affermando che a Gaza non vi è alcuna reale emergenza umanitario.

“Dopo tre anni e passa di assedio – ribatte Arrigoni – la Striscia è allo stremo. Lo scorso anno Jimmy Carter dopo una visita a gaza dichiarò che il blocco sta uccidendo lentamente 1,5 milioni di persone. E poi basta leggere i continui rapporti e le denunce che arrivano dalle nazioni Unite e da organizzazioni non governative, come Amnesty International. Non serve che Israele mostri le merci presenti nei negozi di Gaza. Bisognerebbe parlare delle cose che mancano, dai medicinali, alle attrezzature mediche ai materiali edilizi. Ed è bene sottolineare che anche le merci che ci sono arrivano dai tunnel e che non tutti possono permettere. E’ vergognoso che nel 21esimo secolo un popolo debba scavare tunnel venti metri sotto terra per avere le cose di cui ha bisogno”.

Molti osservatori israeliani adesso sono preoccupati per le reazioni della comunità internazionale, ma soprattutto per quelle della popolazione palestinese che vive nello Stato ebraico e nei Territori occupati. Qualcuno arriva a prevedere lo scoppio di una terza Intifada, ma secondo Arrigoni questa eventualità al momento non esiste.

“Adesso si sta preparando una manifestazione non-violenta, che si annuncia molto partecipata, con cui chiedere l’intervento della comunità internazionale e una condanna unanime per Israele e per questo ennesimo massacro compiuto dal suo governo. Ma è triste pensare che solo fino a ieri tra la popolazione di Gaza c’era tanta attesa, tanta voglia di accogliere questa nuova spedizione internazionale. Nei giorni scorsi, ho visto la speranza e i sorrisi sui volti della gente, come non accadeva da tanto tempo”.

pubblico integralmente una bella lettera di Franco Berardi (Bifo) che è apparsa su ReKombinant:
[RK] Che dirò ai miei studenti nel giorno della memoria?

L’ho trovata talmente chiara ed importante da sentire la necessità di farla risuonare. D’altronde la funzione di questo blog è sempre stata quella di riecheggiare le voci intelligenti. In questo senso la mia voce non diventa necessaria quando ne appare un’altra così limpida…

Un caro abbraccio ed un ringraziamento a Bifo, filosofo e pensatore ad oltranza, nonché insegnante in una scuola serale di Bologna. Per chi vuole conoscerlo meglio: su questo sitoo su Wikipedia
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«hai fatto una strage di bambini e hai dato la colpa ai loro genitori dicendo che li hanno usati come scudi. Non so pensare a nulla di più infame (…) li hai chiusi ermeticamente in un territorio, e hai iniziato ad ammazzarli con le armi più sofisticate, carri armati indistruttibili, elicotteri avveniristici, rischiarando di notte il cielo come se fosse giorno, per colpirli meglio. Ma 688 morti palestinesi e 4 israeliani non sono una vittoria, sono una sconfitta per te e per l’umanità intera».

(Stefano Nahmad, la cui famiglia ha subito le persecuzioni naziste)

Insegno in una scuola serale per lavoratori, in gran parte stranieri.
E’ un ottimo osservatorio per capire quel che accade nel mondo.
L’anno scorso, avvicinandosi il giorno della memoria che ogni anno si celebra nelle scuole, leggemmo brani dal libro Se questo è un uomo di Primo Levi. Avevamo parlato molto della questione ebraica, e della storia del popolo ebreo dalle epoche lontane al ventesimo secolo. Proposi che tutti scrivessero un breve testo sugli argomenti di cui avevamo parlato.
Claude D, un ragazzo senegalese di circa venti anni, piuttosto pigro ma dotato di vivacissima intelligenza concluse il suo lavoro con queste parole: “Ogni anno si fanno delle cerimonie per ricordare lo sterminio degli ebrei, ma gli ebrei non sono i soli che hanno subito violenza. Perché ogni anno dobbiamo stare lì a sentire i loro pianti quando altri popoli sono stati ammazzati ugualmente e nessuno se ne preoccupa?”
Questa frase mi colpì, e decisi di proporla alla discussione della classe, in cui oltre Claude c’erano cinque italiani due marocchini un peruviano una brasiliana, un somalo, due ragazze romene una ucraina e due russi. L’opinione di Claude era quella di tutti. Sia ben chiaro: nessuno mise in dubbio la verità storica dell’Olocausto, neppure Yassin, un ragazzo marocchino appassionato alla causa palestinese e sempre pronto a criticare con durezza Israele. Tutti avevano seguito con attenzione e partecipazione la lettura delle pagine di Primo Levi.
Però tutti mi chiedevano: perché non si fanno cerimonie pubbliche dedicate allo sterminio dei rom, dei pellerossa, o allo sterminio in corso dei palestinesi? Claude a un certo punto uscì fuori con una frase che non potevo contestare: perché nessuno ha pensato a un giorno della memoria dedicato all’olocausto africano? Pensai ai milioni di suoi antenati deportati da negrieri schiavisti, pensai all’irreparabile danno che questo ha prodotto nella vita dei popoli del golfo d’Africa occidentale, e conclusi il discorso in maniera che a tutti apparve risolutiva (vorrei quasi dire salomonica): “Nel giorno della memoria si ricorda l’Olocausto ebraico perché attraverso questo sacrificio si ricordano tutti gli Olocausti sofferti dai popoli di tutta la terra.”

Ammesso che la parola “identità” significhi qualcosa, e non lo credo, per me l’identità non è definita dal sangue e dalla terra, blut und boden come dicono i romantici tedeschi, ma dalle nostre letture, dalla formazione culturale e dalle nostre mutevoli scelte. Perciò io affermo di essere ebreo. Non solo perché ho sempre avuto un interesse fortissimo per le questioni storiche e filosofiche poste dall’ebraismo della diaspora, non solo perché ho letto con passione Isaac Basheevis Singer e Abraham Jehoshua, Gerhom Sholem, Akiva Orr, Else Lasker Shule e Daniel Lindenberg, ma soprattutto perché mi sono sempre identificato profondamente con ciò che definisce l’essenza culturale dell’ebraismo diasporico. Nell’epoca moderna gli ebrei sono stati perseguitati perché portatori della Ragione senza appartenenza. Essi sono l’archetipo della figura moderna dell’intellettuale. Intellettuale è colui che non compie scelte per ragioni di appartenenza, ma per ragioni universali. Gli ebrei, proprio perché la storia ha fatto di loro degli apatridi, hanno avuto un ruolo fondamentale nella costruzione della figura moderna dell’intellettuale ed hanno avuto un ruolo fondamentale nella formazione dell’Illuminismo e della laicità, e anche dell’internazionalismo socialista.
Come scrive Singer, nelle ultime pagine del suo Meshugah: “La libertà di scelta è strettamente individuale. Due persone insieme hanno meno libertà di scelta di quanto ne abbia una sola, le masse non hanno virtualmente nessuna possibilità di scelta.”
Per questo io sono ebreo, perché non credo che la libertà stia nell’appartenenza, ma solamente nella singolarità. So bene che nel ventesimo secolo gli ebrei sono stati condotti dalla forza della catastrofe che li ha colpiti, a identificarsi come popolo, a cercare una terra nella quale costituirsi come stato: stato ebraico. E’ il paradosso dell’identificazione. I nazisti costrinsero un popolo che aveva fatto della libertà individuale il valore supremo ad accettare l’identificazione, la logica di appartenenza e perfino a costruire uno stato confessionale che contraddice le premesse ideologiche che proprio il contributo dell’ebraismo diasporico ha introdotto nella cultura europea.
In Storia di amore e di tenebra scrive Amos Oz: “Mio zio era un europeo consapevole, in un’epoca in cui nessuno in Europa si sentiva ancora europeo a parte i membri della mia famiglia e altri ebrei come loro. Tutti gli altri erano panslavi, pangermanici, o semplicemente patrioti lituani, bulgari, irlandesi slovacchi. Gli unici europei di tutta l’Europa, negli anni venti e trenta, erano gli ebrei. In Jugoslavia c’erano i serbi i croati e i montenegrini, ma anche lì vive una manciata di jugoslavi smaccati, e persino con Stalin ci sono russi e ucraini e uzbeki e ceceni, ma fra tutti vivono anche dei nostri fratelli, membri del popolo sovietico.”

Il mio punto di vista sulla questione mediorientale è sempre stato lontano da quello dei nazionalisti arabi. Avrei mai potuto sposare una visione nutrita di autoritarismo e di fascismo? E oggi potrei forse sposare il punto di vista dell’integralismo religioso che pervade la rabbia dei popoli arabi e purtroppo ha infettato anche il popolo palestinese nonostante la sua tradizione di laicismo? Proprio perché non ho mai creduto nel principio identitario non ho mai provato
particolare affezione per l’idea di uno stato palestinese. I palestinesi sono stati costretti all’identificazione nazionale dall’aggressione israeliana che dal 1948 in poi si è manifestata in maniera brutale come espulsione fisica degli abitanti delle città, come cacciata delle famiglie dalle loro abitazioni, come espropriazione delle loro terre, come distruzione della loro cultura e dei loro affetti. “Due popoli due stati” é una formula che sancisce una disfatta culturale ed etica, perché contraddice l’idea – profondamente ebraica – secondo cui non esistono popoli, ma individui che scelgono di associarsi. E soprattutto contraddice il principio secondo cui gli stati non possono essere fondati sull’identità, sul sangue e sulla terra, ma debbono essere fondati sulla costituzione, sulla volontà di una maggioranza mutevole, cioè sulla democrazia.
Pur avendo un interesse intenso per l’intreccio di questioni che la storia ebraica passata e recente pone al pensiero, non ho mai scritto su questo argomento neppure quando l’assedio di Betlemme o il massacro di Jenin o l’orribile violenza simbolica compiuta da Sharon nel settembre del 2000 o i bombardamenti criminali dell’estate 2006 provocavano in me la stessa ribellione e lo stesso orrore che provocavano gli attentati islamici di Gerusalemme o di Netanja o gli omicidi casuali di cittadini israeliani provocati dal lancio di razzi Qassam.
Non ho mai scritto nulla, (mi dispiace doverlo dire), perché avevo paura. Come ho paura adesso, non lo nascondo. Paura di essere accusato di una colpa che considero ripugnante – l’antisemitismo. So di poter essere accusato di antisemitismo a causa della convinzione, maturata attraverso la lettura dei testi di Avi Shlaim, e di cento altri studiosi in gran parte ebrei, che il sionismo, discutibile nelle sue scelte originarie, si è evoluto come una mostruosità politica. Pur avendo paura non posso però più tacere dopo aver discusso con lo studente Claude. Considero il sionismo causa di infinite ingiustizie e sofferenze per il popolo palestinese, ma soprattutto lo considero causa di un pericolo mortale per il popolo ebraico. A causa della violenza sistematica che il sionismo ha scatenato negli ultimi sessant’anni, la bestia antisemita sta riemergendo, e sta diventando maggioritaria se non nel discorso pubblico nel subconscio collettivo.
Dato che non è possibile affermare a viso aperto che il sionismo è una politica sbagliata che produce effetti criminali, molti non lo dicono, ma non possono impedirsi di pensarlo.
Aprendo la discussione sulle parole dello studente Claude, ho scoperto che gli altri studenti, italiani e marocchini, romeni e peruviani, che pure nel loro svolgimento avevano trattato la questione secondo gli stilemi politicamente corretti, costretti ad approfondire il ragionamento e a far emergere il loro vero sentimento, finivano per identificare il sionismo con il popolo ebraico e quindi a ripercorrere la strada che conduce verso l’antisemitismo. Considerando criminale e arrogante il comportamento dello stato di Israele, identificandosi spontaneamente con il popolo palestinese vittimizzato, finivano inconsapevolmente per riattivare l’antico riflesso anti-ebraico.
Proprio la rimozione e il conformismo che si coltivano nel giorno della memoria stanno producendo nel subconscio collettivo un profondo antisemitismo che non si confessa e non si esprime. Perciò credo che occorra liberarsi della rimozione e denunciare il pericolo che il sionismo aggressivo rappresenta soprattutto per il popolo ebraico.
Trasformare la questione ebraica in un tabù del quale è impossibile parlare senza incorrere nella stigmatizzazione benpensante sarebbe (anzi è già) la condizione migliore per il fiorire dell’antisemitismo.

Si avvicina il 27 gennaio, che sarà anche quest’anno il giorno della memoria. Come potrò parlarne nella classe in cui insegno quest’anno?
Non c’è più Claude, ma ci sono altri ragazzi africani e arabi e slavi ai quali non potrò parlare dell’immane violenza che colpì il popolo ebraico negli anni Quaranta senza riferirmi all’immane violenza che colpisce oggi il popolo palestinese. Se tacessi questo riferimento apparirei loro un ipocrita, perché essi sanno quel che sta accadendo.
E come potrò tacere le analogie tra l’assedio di Gaza e l’assedio del Ghetto di Varsavia del quale abbiamo parlato recentemente? E’ vero che gli ebrei uccisi nel ghetto di Varsavia nel 1943 furono 58.000 mentre i morti palestinesi sono per il momento solo mille. Ma come dice Woody Allen i record sono fatti per essere battuti. La logica che ha preparato la ghettizzazione di Gaza (che un cardinale cattolico ha definito “campo di concentramento”) non è forse simile a quella che guidò la ghettizzazione degli ebrei di Varsavia? Non vennero forse gli ebrei di Varsavia costretti ad ammassarsi in uno spazio ristretto che divenne in poco tempo un formicaio? Non venne forse costruito intorno a loro un muro di cinta della lunghezza di 17 chilometri di tre metri di altezza esattamente come quello che Israele ha costruito per rinchiudere i palestinesi? Non venne agli ebrei polacchi impedito di uscire dai valichi che erano controllati da posti di blocco militari?
Per motivare la loro aggressione che uccide quotidianamente centinaia di bambini e di donne, i dirigenti politici israeliani denunciano i missili Qassam che in otto anni hanno causato dieci morti (tanti quanti l’aviazione israeliana uccide in mezz’ora). E’ vero: è terribile, è inaccettabile che il terrorismo di Hamas colpisca la popolazione civile di Israele. Ma questo giustifica forse lo sterminio di un popolo? Giustifica il terrore indiscriminato, la distruzione di una città? Anche gli ebrei di Varsavia usarono pistole, bombe a mano, bottiglie molotov e perfino un mitra per opporsi agli invasori. Armi del tutto inadeguate, come lo sono i razzi Qassam. Eppure nessuno può condannare la difesa disperata degli ebrei di Varsavia.
Cosa posso dire, dunque, nel giorno della memoria? Dirò che occorre ricordare tutte le vittime del razzismo, quelle di ieri e quelle di oggi. O questo può valermi l’accusa di antisemitismo?

Se qualcuno vuole accusarmi a questo punto non mi fa più paura. Sono stanco di impedirmi di parlare e quasi perfino di pensare ciò che appare ogni giorno più evidente: che il sionismo aggressivo, oltre ad aver portato la guerra e la morte e la devastazione al popolo palestinese, ha stravolto la stessa memoria ebraica fino al punto che nelle caserme israeliane sono state trovate delle svastiche, e fino al punto che cittadini israeliani bellicisti hanno recentemente insultato cittadini israeliani pacifisti con le parole “con voi Hitler avrebbe dovuto finire il suo lavoro”.
Proprio dal punto di vista del popolo ebraico il sionismo aggressivo può divenire un pericolo mortale. L’orrenda carneficina che Israele sta mettendo in scena nella striscia di Gaza, come i bombardamenti della popolazione di Beirut due anni fa, sono segno di demenza suicida. Israele ha vinto tutte le guerre dei passati sessant’anni e può vincere anche questa guerra contro una popolazione disarmata. Ma la lezione che ne ricavano centinaia di milioni di giovani islamici che assistono ogni sera allo sterminio dei loro fratelli palestinesi è destinata a far sorgere un nuovo nazismo.
Israele può sconfiggere militarmente Hamas. Può vincere un’altra guerra come ha vinto quelle del 1948 del 1967 e del 1973. Può vincere due guerre tre guerre dieci guerre. Ma ogni sua vittoria estende il fronte dei disperati, il fronte dei terrorizzati che divengono terroristi perché non hanno alcuna alternativa. Ogni sua vittoria approfondisce il solco che separa il popolo ebraico da un miliardo e duecento milioni di islamici. E siccome nessuna potenza militare può mantenere in eterno la supremazia della forza, i dirigenti sionisti aggressivi dovrebbero sapere che un giorno o l’altro l’odio accumulato può dotarsi di una forza militare superiore, e può scatenarla senza pietà, come senza pietà oggi si scatena l’odio israeliano contro la popolazione indifesa di Gaza.

franco berardi, 15/01/2009

da noi (in Sardegna) per dare gli auguri di buon anno si usa una formula: bonos printzipios, o bonos incomintzos, alla quale si risponde con menzus fines oppure menzus acabos
l’augurio è di cominciare bene l’anno per poi poterlo finire meglio

è il mio augurio per tutti, anche se mi sembra fuori luogo in un momento in cui non lo si possa estendere anche ai palestinesi che proprio in questi giorni stanno subendo un’operazione di pulizia etnica cominciata tanti anni fa

è col dolore nel cuore che vi riporto questo editoriale di Alessandro Cardulli chiedendomi: possibile che il grande popolo israeliano non riesca a ribellarsi alle opzioni sioniste? possibile che il mondo riesca ad assorbire questa ennesima strage senza reagire? che anno sarà questo? a quali stragi dovremo assistere ancora?
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Palestina, tragedia in diretta fra orrore e cinismo dei media
Martedì 30 Dicembre 2008 18:41

Abbiamo appreso da un servizio mandato in onda dal giornale radio Rai che oggi Hamas ha lanciato alcuni razzi contro i territori israeliani. Non ci sono state vittime. Nonostante questo-ha detto il giornalista- le autorità israeliane hanno consentito l’ingresso a Gaza di un automezzo che portava aiuti alla popolazione palestinese. Siamo rimasti allibiti. Quella parola, “nonostante” ci fa capire quanta e quale crudeltà sia ormai dentro questo conflitto che dura ormai da decine di anni.

Per il giornalista che ha redatto il servizio evidentemente è naturale che se tu mi spari un razzo io impedisca alle associazioni umanitarie di venire in soccorso di persone ferite, che non hanno cibo, al limite della resistenza., che vivono in condizioni disumane. L’autorizzazione all’automezzo, da quel “nonostante” viene fatta apparire come una benevola concessione delle autorità militari e, di fatto, del governo israeliano. Una guerra talmente crudele che nega perfino il diritto alle popolazioni, ai civili, ad essere assistiti. Bisogna chiedere il permesso e non è facile ottenerlo da ministri che guardano solo alle prossime elezioni. Un morto palestinese in più può essere un voto in più. Non è un caso che fra i falchi, forse il più falco di tutti, ci sia il ministro della Difesa Barak, un laburista. I sondaggi danno quel partito in ripresa. Insomma quel “nonostante“ dice tutto, ci descrive un quadro che dovrebbe suscitare orrore, protesta, lotta. Se andiamo su “You Tube” troviamo lo spettacolo mandato direttamente in onda dall’esercito israeliano. I bombardamenti vengono “trasmessi” a raggi infrarossi, i filmati di una tragedia, di donne e uomini, bambini e anziani, uccisi da micidiali strumenti di morte diventano spettacolo. I filmati portano una firma, IDF, Isreaeli Defense Forces. Ci manca indicazione del nome del regista e dello sceneggiatore per completare il quadro. Dalla terra al mare: una imbarcazione, la “Dignity”, che portava aiuti umanitari, medicinali e cibo, per conto di una associazione “Free Gaza” è stata speronata da un mezzo della marina militare israeliana. Due i motivi: non ci può avvicinare alla costa e poi sulla imbarcazione si sarebbe trovati anche dei giornalisti e loro, il ministro Barak non li vuole perchè sono dei “provocatori”, così è stato detto dalle autorità militari.

I panni sporchi devono restare in famiglia. Lo spettacolo lo offrono i filmati dell’IDF. Se questo è il quadro che provoca in noi un senso di orrore, orrore profondo, ci fa sentire che la nostra “civiltà“ sta superando i limiti di guardia, a leggere i media italiani, guardare la tv, ad ascoltare la radio si scoprono un cinismo e una brutalità che ci pongono una domanda: cosa sta accendo nel mondo del giornalismo, dell’informazione? Salvo eccezioni c’è una linea comune: gli israeliani si difendono. “Che potevamo fare?” si è chiesta Tzipi Livni, candidata a presidente, intervistata da giornalisti italiani.

Si potrebbe rispondere: non distruggere le barche di pescatori che con la sicurezza di Israele hanno ben poco a che vedere. Non colpire obiettivi civili, abitazioni, l’università. Accettiamo la logica del cinismo, la legge “del taglione”, occhio per occhio, dente per dente, di cui sono impregnati i media. In quattro giorni i razzi di Hamas hanno ucciso quattro persone. Le bombe israeliane ne hanno uccise quasi quattrocento con millecinquecento feriti di cui perlomeno duecento gravi. Non vale neppure l’ochio per occhio dente per dente”. Ora ci sono carri armati ammassati pronti a entrare in azione, un mare di sangue se si attacca via terra. In un cordiale colloquio con il nostro ministro degli esteri, Frattini, la Livni ha detto che non ci sarà attacco di terra. Il nostro ministro ha gentilmente pregato, quasi a scusarsene, l’esponente del governo israeliano di evitare di colpire i civili. Ma i civili sono stati già stati colpiti, uccisi, feriti. Frattini non poteva usare la parola “tregua”? Altra soluzione non c’è. Esperti di strategie militari, certo non amici di Hamas, dicono che se si scatena la guerra di terra si fa un nuovo favore a Hamas, che la risposta sarebbe una lunga, tragica guerriglia dalla quale Israele uscirebbe con le ossa rotte. L’operazione sciaguratamente denominata “Piombo Fuso” che dovrebbe portare alla distruzione di Hamas, si rivolterebbe contro il governo di Olmert che l’ha promossa. Unico risultato: allontanare per sempre l’obiettivo difficile, ma ancor oggi ultima speranza di “due popoli due stati”. Tanti, tantissimi al di qua e al di la del Mediterraneo sarebbero gli avversari di Israele. E questo il popolo ebraico non lo merita.

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ormai centinaia i corpi ammucchiati mentre l’esercito israeliano continua ad attaccare – tanti sono i bambini – è un vero massacro impune di cui era già stata data notizia due giorni prima – i palestinesi sono abbandonati a sé stessi –

situazione 1947
proposta 1947
situazione 1949
proposta 2000

ecco uno scritto dell’ex ministro dell’informazione del governo di unità nazionale palestinese, e direttore del Medical Relief, Mustafa Barghouti.

Ramallah, 27 dicembre 2008.

E leggerò domani, sui vostri giornali, che a Gaza è finita la tregua.
Non era un assedio dunque, ma una forma di pace, quel campo di concentramento falciato dalla fame e dalla sete. E da cosa dipende la differenza tra la pace e la guerra? Dalla ragioneria dei morti? E i bambini consumati dalla malnutrizione, a quale conto si addebitano? Muore di guerra o di pace, chi muore perché manca l’elettricità in sala operatoria? Si chiama pace quando mancano i missili – ma come si chiama, quando manca tutto il resto?
E leggerò sui vostri giornali, domani, che tutto questo è solo un attacco preventivo, solo legittimo, inviolabile diritto di autodifesa.
La quarta potenza militare al mondo, i suoi muscoli nucleari contro razzi di latta, e cartapesta e disperazione. E mi sarà precisato naturalmente, che no, questo non è un attacco contro i civili – e d’altra parte, ma come potrebbe mai esserlo, se tre uomini che chiacchierano di Palestina, qui all’angolo della strada, sono per le leggi israeliane un nucleo di resistenza, e dunque un gruppo illegale, una forza combattente? – se nei documenti ufficiali siamo marchiati come entità nemica, e senza più il minimo argine etico, il cancro di Israele?

Se l’obiettivo è sradicare Hamas – tutto questo rafforza Hamas. Arrivate a bordo dei caccia a esportare la retorica della democrazia, a bordo dei caccia tornate poi a strangolare l’esercizio della democrazia – ma quale altra opzione rimane? Non lasciate che vi esploda addosso improvvisa. Non è il fondamentalismo, a essere bombardato in questo momento, ma tutto quello che qui si oppone al fondamentalismo. Tutto quello che a questa ferocia indistinta non restituisce gratuito un odio uguale e contrario, ma una parola scalza di dialogo, la lucidità di ragionare il coraggio di disertare – non è un attacco contro il terrorismo, questo, ma contro l’altra Palestina, terza e diversa, mentre schiva missili stretta tra la complicità di Fatah e la miopia di Hamas. Stava per assassinarmi per autodifesa, ho dovuto assassinarlo per autodifesa – la racconteranno così, un giorno i sopravvissuti.

E leggerò sui vostri giornali, domani, che è impossibile qualsiasi processo di pace, gli israeliani, purtroppo, non hanno qualcuno con cui parlare. E effettivamente – e ma come potrebbero mai averlo, trincerati dietro otto metri di cemento di Muro? E soprattutto – perché mai dovrebbero averlo, se la Road Map è solo l’ennesima arma di distrazione di massa per l’opinione pubblica internazionale? Quattro pagine in cui a noi per esempio, si chiede di fermare gli attacchi
terroristici, e in cambio, si dice, Israele non intraprenderà alcuna azione che possa minare la fiducia tra le parti, come – testuale – gli attacchi contro i civili. Assassinare civili non mina la fiducia, mina il diritto, è un crimine di guerra non una questione di cortesia. E se Annapolis è un processo di pace, mentre l’unica mappa che procede sono qui intanto le terre confiscate, gli ulivi spianati le case demolite, gli insediamenti allargati – perché allora non è processo di pace la proposta saudita? La fine dell’occupazione, in cambio del riconoscimento da parte di tutti gli stati arabi. Possiamo avere se non altro un segno di reazione? Qualcuno, lì, per caso ascolta, dall’altro lato del Muro?

Ma sto qui a raccontarvi vento. Perché leggerò solo un rigo domani, sui vostri giornali e solo domani, poi leggerò solo, ancora, l’indifferenza. Ed è solo questo che sento, mentre gli F16 sorvolano la mia solitudine, verso centinaia di danni collaterali che io conosco nome a nome, vita a vita – solo una vertigine di infinito abbandono e smarrimento. Europei, americani e anche gli arabi – perché dove è finita la sovranità egiziana, al varco di Rafah, la morale egiziana, al sigillo di Rafah? – siamo semplicemente soli. Sfilate qui, delegazione dopo delegazione – e parlando, avrebbe detto Garcia Lorca, le parole restano nell’aria, come sugheri sull’acqua. Offrite aiuti umanitari, ma non siamo mendicanti, vogliamo dignità libertà, frontiere aperte, non chiediamo favori, rivendichiamo diritti. E invece arrivate, indignati e partecipi, domandate cosa potete fare per noi. Una scuola? Una clinica forse? Delle borse di studio? E tentiamo ogni volta di convincervi – no, non la generosa solidarietà, insegnava Bobbio, solo la severa giustizia – sanzioni, sanzioni contro Israele.
Ma rispondete – e neutrali ogni volta, e dunque partecipi dello squilibrio, partigiani dei vincitori – no, sarebbe antisemita. Ma chi è più antisemita, chi ha viziato Israele passo a passo per sessant’anni, fino a sfigurarlo nel paese più pericoloso al mondo per gli ebrei, o chi lo avverte che un Muro marca un ghetto da entrambi i lati? Rileggere Hannah Arendt è forse antisemita, oggi che siamo noi palestinesi la sua schiuma della terra, è antisemita tornare a illuminare le sue pagine sul potere e la violenza, sull’ultima razza soggetta al colonialismo britannico, che sarebbero stati infine gli inglesi stessi? No, non è antisemitismo, ma l’esatto opposto, sostenere i tanti israeliani che tentano di scampare a una nakbah chiamata sionismo. Perché non è un attacco contro il terrorismo, questo, ma contro l’altro Israele, terzo e diverso, mentre schiva il pensiero unico stretto tra la complicità della sinistra e la miopia della destra.

So quello che leggerò, domani, sui vostri giornali. Ma nessuna autodifesa, nessuna esigenza di sicurezza. Tutto questo si chiama solo apartheid – e genocidio. Perché non importa che le politiche israeliane, tecnicamente, calzino oppure no al millimetro le definizioni delicatamente cesellate dal diritto internazionale, il suo aristocratico formalismo, la sua pretesa oggettività non sono che l’ennesimo collateralismo, qui, che asseconda e moltiplica la forza dei vincitori. La benzina di questi aerei è la vostra neutralità, è il vostro silenzio, il suono di queste esplosioni. Qualcuno si sentì berlinese, davanti a un altro Muro. Quanti altri morti, per sentirvi cittadini di Gaza?

Appello del Comitato per la Palestina

Non ci sono più scuse… ma ho i miei fondati dubbi che questo appello venga accolto: il Salone è uno sporco business, e qualcuno deve farlo… anche se quest’anno gronderà sangue.

Per aderire scrivere a: fieralibera@libero.it

Revocate adesso la decisione di dedicare a Israele
la Fiera del Libro di Torino

Con questo appello torniamo a chiedere alla direzione della Fiera del Libro di Torino di revocare la decisione di avere come ospite d’onore lo Stato d’Israele per l’edizione 2008. Gli chiediamo di farlo ora e di dedicare questa edizione della Fiera del Libro alla pace cioè ad un “paese morale” coniugabile e comprensibile in molte lingue

salaam, shalom, peace, paix, frieden, mir, pace, paz.
  1. Chiediamo di revocare una decisione sbagliata ed inopportuna fortemente condizionata dalla volontà delle autorità israeliane di celebrare in un importante evento culturale in Italia un atto esplicitamente politico come la celebrazione dei sessanta anni della nascita dello Stato di Israele. Occultare la Palestina e il dramma del popolo palestinese – indissolubilmente connessi alle scelte concrete di Israele – è stata una forzatura che non poteva passare sotto silenzio, né in Italia nè altrove. Tanto più alla luce della mattanza scatenata dalle forze armate israeliane contro la popolazione palestinese di Gaza.

 

  • A nessuno è sfuggita la dimensione politica e per molti aspetti strumentale della decisione di dedicare a Israele l’edizione 2008 della Fiera del Libro. Questa dimensione tutta politica, non può essere occultata dal tentativo di disegnare la contestazione e il dissenso dalla scelta della direzione della Fiera del Libro di Torino come una operazione tesa ad imbavagliare la cultura o di mettere a tacere la letteratura ebraica ed israeliana. Nulla di più falso. Al contrario riteniamo che proprio il tentativo di utilizzare la cultura come forma di legittimazione della politica di uno Stato sia un’offesa verso il buonsenso dell’opinione pubblica, una strumentalizzazione della libertà di espressione e del ruolo degli scrittori. Allo stesso modo riteniamo maldestro e fallace il tentativo di lasciar credere che la campagna di contestazione della Fiera del Libro di Torino sia partita dalle capitali dei paesi arabi e islamici e non da una spinta dal basso della società civile italiana. E’ accaduto esattamente il contrario sia sul piano cronologico che politico. E’ stato solo dopo che associazioni e comitati impegnati nella solidarietà con il popolo palestinese hanno contestato la decisione di dedicare a Israele la Fiera del Libro che il dibattito e l’allarme hanno raggiunto la sponda sud del Mediterraneo. Solo in seguito alle denunce delle associazioni sono venute crescendo proteste e proposte di boicottaggio anche tra gli scrittori e le istituzioni del mondo arabo-islamico. Affermare il contrario è una falsità che non aiuta la discussione né la soluzione.
  • Gli echi e i contraccolpi di questa iniziativa di contestazione in Italia sono stati talmente forti e argomentati che scrittori e intellettuali arabi, israeliani e arabi-israeliani hanno deciso di non partecipare ad un evento che celebra i sessanta anni della nascita di uno Stato nato sulle spalle della popolazione palestinese e che definisce questo anniversario come Nakba (la catastrofe). E’ ormai evidente che sono molti ad aver compreso che così come è stata concepita e costruita la Fiera del Libro di Torino di quest’anno, l’ha trasformata in un evento scivoloso e strumentalizzabile, decidendo di conseguenza, pubblicamente o meno, di tenersene alla larga. Ciò dimostra che l’operazione fin qui tentata è fallita e che la direzione della Fiera del Libro ha un’ultima possibilità di evitare tensioni, polemiche e strumentalizzazioni che condizioneranno pesantemente un evento culturale come quello di maggio a Torino.

 

C’è solo una decisione da prendere e noi torniamo a chiedere con questo appello che venga presa adesso: revocare la decisione di dedicare a Israele la Fiera del Libro e dedicare l’edizione di quest’anno alla pace. E’ l’unica scelta che può restituire contenuto e dignità alla Fiera del Libro e forse riparare ad alcuni dei danni fatti nelle relazioni culturali tra l’Italia e il resto delle società del Mediterraneo e allo spirito libero e critico del confronto tra le culture.

situazione 1947
proposta 1947
situazione 1949
proposta 2000

a scuola in Palestina…

La Cina in Tibet…
come Israele a Gaza…
e la Birmania… il Kurdistan… la Cecenia… il Kenia… il Darfur…

ovunque l’arroganza assassina del potere e l’impotenza degli esseri che lo subiscono…
non abbiamo strumenti oltre la voce, ma farla tacere è come sporcarsi le mani col sangue che stanno versando, come aiutarli a ripulire l’apparenza

esistono luoghi di resistenza dello spirito che vanno rafforzati e riscaldati con una presenza attiva – metto qui un link che vi fa accedere ai luoghi in cui già si parla di questo: rossi orizzonti rimanda ai i siti più importanti per non assentarsi, per non tacere

e l’appello di NINA MAROCCOLO su letteratitudine – che riporto ed al quale aderisco…
ps: se all’inizio non lo vedete, resistete e non scoraggiatevi: per leggerlo dovete cercare un post del 14 marzo andando in fondo alla rubrica LA CAMERA ACCANTO (nota tecnica: ma non potevano dargli uno spazio a parte? è come passare su un telegiornale fra stragi, tormentoni, e notizie di moda…)

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@APPELLO

Roma, 18 marzo 2008

Voglio e devo lanciare un appello sulla nuova ondata di violenza e uccisioni in Tibet. La questione asiatica sta diventando sempre più terribile. Non è bastata neanche la Birmania, che ha secoli di storia fatta di soprusi e crimini, quanto e più del Tibet.
In Tibet la strage continua, e i monaci eseguono atti di autolesionismo, cercano di suicidarsi. Per chi conosce il buddhismo tibetano, questo atto per un monaco è inamissibile. Comporta una deviazione dai precetti del Dharma. A Lhasa la polizia cinese ha caricato anche i civili. La polizia sta arginando i tre monasteri più grandi e importanti di questa regione tormentata.
Tra poco scade l’ultimatum.
Sul blog di Massimo Maugeri “Letteratitudine” sezione “La Camera accanto 2”, troverete i miei messaggi, le organizzazioni, i blogger, siti di scrittori, Unimondo, Amnesty, Associazione Italia-Tibet; aggiornamenti, appelli, sconfitte (vedi CONI), raccolte di adesioni da parte di scrittori e giornalisti.
In molti abbiamo scritto al CONI, chiedendo agli atleti di boicottare Pechino 2008. La Federazione italiana sportiva ha CENSURATO i messaggi e li ha eliminati sistematicamente. Ma Pechino e le Olimpiadi vanno boicottate. La Cina va fermata, e non con le sanzioni che sono un semplice palliativo del tutto inesistente: inoltre, la superpotenza porta avanti – non solo moralmente – il genocidio nel Darfur vendendo armi ai miliziani sudanesi.
Vi sto chiedendo aiuto.
Una raccolta di firme da mandare all’ONU e al Parlamento Europeo; iniziativa che molti dei paesi europei stanno già attuando.
Un ringraziamento va al Principe Carlo d’Inghilterra, favorevole al boicottaggio: la federazione inglese, infatti, non si presenterà alle Olimpiadi.
Mi appello a tutti gli scrittori, critici letterari, giornalisti, semplici lettori.
A voi tutti.
Questo è un altro modo per fare della scrittura e della Letteratura un “mezzo” etico, di denuncia, di azione civile per reclamare i diritti umani e richiamarci ai doveri semplici di cittadini del mondo.
Le firme devono recare, oltre al NOME E COGNOME, CITTA’, NAZIONE, PROFESSIONE. Insieme a questo appello, inviatele a Massimo Maugeri, letteratitudine presso la sezione “La Camera accanto 2”.
Fate girare questo messaggio se lo condividete. E firmate, firmate, firmate.
Con tutto il cuore. La mia è una preghiera.
In nome della Solidarietà.
Nina Maroccolo