Grigio di Baghdad 

di Alberto Masala
Parto da Baghdad con i suoi 1400 checkpoints in una triste prima mattina di pioggia che rende ancora più plumbeo il grigio del cemento e più fangosa la polvere marrone degli sterrati. Il grigio qui non è più un colore: è una condizione mimetica che pervade lo sguardo appiattendolo in visioni disperate. Anche il respiro è razionato a brevi dosi in un soffio d’angoscia senza mai distesa. Nell’ultimo tratto, mentre il Toyota s’infila nel percorso obbligato tra i blocchi di cemento, penso alla generosità di Nicola Calipari ed alla forza di Giuliana Sgrena che ha scelto di tornare fra questa gente. Era marzo, sono passati giusto 5 anni. Mi guardo attorno e non riesco a pensare ad altro. Dov’era appostato Lozano? A che punto del percorso ha sparato?… è un’orribile sensazione percorrere uno spazio dove qualcuno ha ucciso, è un peso che arriva al cuore come se la stessa terra rifiutasse di inghiottire quel momento e lo rendesse materia solida, pesante e difficile da attraversare. E non si arriva mai… 14 passaggi, gli ultimi, dall’accesso dell’aeroporto al portellone dell’aereo: mettiti in fila, passaporto, apri la valigia, fatti perquisire, chiudi la valigia, togli la giacca, vuota le tasche, passa al metal detector, qualcosa squilla… la cintura, i bottoni metallici della camicia… lo scanner… ok, rivestiti, rimetti tutto in tasca… avanti il prossimo. Posso partire dall’Iraq. Sono illeso, le uniche tracce che esporto stanno nel profondo e mi hanno solcato l’anima lasciando detriti incancellabili. Ho visto poco e quasi tutto dai finestrini del pullman che ci ha portava sempre scortato da due pickup pieni di armati.

– 1 aprile articolo di Paolo Merlini su “la Nuova Sardegna” (*v. nota)

– 3 aprile intervista di Daniele Barbieri per “Liberazione”

– e per “Piazza Grande” di maggio

– e, in seguito, aggiungo qui l’intervista di Cristiano Sanna Martini per Tiscali news

– e infine, un mio reportage


intanto in Iraq si continua ad uccidere
(*) nota all’articolo di Paolo Merlini sulla Nuova Sardegna.
Nel bell’articolo sulla “Nuova” di cui ringrazio ancora l’ottimo Paolo Merlini, ci sono un paio di imprecisioni dovute certamente a malintesi dato che tutto si è svolto rapidamente per telefono e non – come avrei preferito – per mail (scripta manent). Sul momento ho pensato di lasciar perdere e non dare importanza, ma dato che mi piace la precisione e stamattina mi sono svegliato dicendo nel dormiveglia: “No… No… No…”, ho pensato di fare questo breve errata corrige:
– 1°. “In the executioner’s house” (Nella casa del boia), il testo sulla guerra indirizzato a George W.Bush, non è uscito per la City Lights ma per la CC. Marimbo press – Berkeley. Questo per rispetto ai coraggiosi Editori e al grande Jack Hirschman che l’ha tradotto e sostenuto la diffusione.
– 2°. La sua presenza nelle vetrine della libreria City Lights (dunque il sostegno di  Lawrence Ferlinghetti) è vera, come nelle foto che Jack mi ha spedito. E fortunosamente era il 50° della Libreria/Casa Editrice. Nella pagina apparsa su Repubblica per la ricorrenza si accennava al ‘mito’, ma non al fatto che c’era un libro italiano esposto: il mio.
– 3°. Non è proprio esatto che altri italiani non siano stati pubblicati dalla casa editrice di San Francisco (Pavese, credo Montale, ed altri…) – al telefono mi riferivo alla collana in cui sono usciti gli scritti di Pasolini – tradotti da Hirschman e Richman, dal titolo “In Danger”…
– 4°. La domanda: “Progetti per il futuro?” mi ha colto di sorpresa e non sapevo cosa rispondere anche se di progetti ne ho parecchi. Impappinato, ho detto la prima cosa che mi è saltata in mente, la più recente nel mio archivio cerebrale… L’interesse e la traduzione di Jonathan Richman per “Alfabeto” mi è stato riconfermato da Jack Hirschman in Iraq. Ma è prematuro parlarne… se ne riparlerà fra qualche mese
Ancora un saluto a Merlini, giornalista che stimo e apprezzo davvero anche umanamente, ma: “è la stampa, bellezza…”

anche se può sembrare assurdo, vado in Iraq, a Basrah e Baghdad, per il festival letterario Al Marbid…


Visualizzazione ingrandita della mappa

dall’album Resuggontu degli StranoS ElementoS

un’intervista prima del concerto di Bologna

Anteprima

 

Il n.4 di Vanitas Magazine è uscito a New York con la copertina di Francesco Clemente. E’ uno speciale sulla traduzione letteraria. Contiene 2 pagine estratte dal mio Taliban grazie alla grande traduzione che ne ha fatto Jack Hirschman.

 

 

 

 

e, sempre a proposito di USA, sono presente con un testo – anche questo tradotto dal caro Jack Hirschman – nel n. 32 della rivista di Oakland (CA), Left Curve

negli USA è la Giornata del ringraziamento
the Thanksgiving day.
Come non ricordarlo innalzando in coro
la preghiera di W. S. Burroughs?

* * *

“A John Dillinger con la speranza che sia ancora vivo.
Giorno del Ringraziamento. 28 novembre 1986”

Grazie per il tacchino selvatico
ed i piccioni viaggiatori destinati
ad essere cacati attraverso le sane
budella Americane.

Grazie per un Continente da saccheggiare
e avvelenare.

Grazie per gli Indiani che ci procurano
quel tanto di stimoli e di pericoli.

Grazie per le immense mandrie di bisonti da
uccidere e scuoiare, lasciando le
carcasse a marcire.

Grazie per le laute ricompense sui lupi
e i coyotes.

Grazie per il Sogno Americano,
da involgarire e falsificare fin quando
le nude menzogne non vi risplendano attraverso.

Grazie per il KKK.

Per gli uomini di legge che incidono
una tacca per ogni negro ucciso.

Per le rispettabili signore casa-e-chiesa,
con le loro meschine, smunte, sgradevoli,
perverse facce.

Grazie per gli adesivi «Ammazza un frocio in
nome di Cristo».

Grazie per l’AIDS di laboratorio.

Grazie per il Proibizionismo e la
Lotta contro la Droga.

Grazie per un paese dove
a nessuno è dato di farsi
i fatti propri.

Grazie per una nazione di spie.

Sì, grazie per tutti i
ricordi… va bene, facci vedere
le braccia!

Sei sempre stato un problema
e ci hai proprio rotto i coglioni.

Grazie per l’ultimo e più grande
tradimento dell’ultimo e più grande
fra i sogni umani.

intervista radiofonica sul libro
a cura di Serena Schiffini in

 

 

recensioni ad Alfabeto di strade

Marco Tarozzi su il Domani, ed. bolognese di la Stampa
Marcello Fois su La Nuova Sardegna
Daniele Barbieri su Piazza Grande
Daniele Barbieri su L’Unione Sarda
Matteo Chiavarone su Ghigliottina.it
Maria Luisa Vezzali su La Repubblica
Barbara Gozzi su: The Populi, – – Malicuvata, – – La Tela Sonora – – Agoravox
Giovanni Nuscis su La poesia e lo spirito

prima ristampa: ecco un’intervista di Cristiano Sanna Martini su Tiscali.it

ASUNI 2009
festa della letteratura e delle arti

evento – luogo di sperimentazione – laboratorio
quinto anno

16-17-18 ottobre

info e materiali: www.progettoasuni.com

le foto sono di Massimo Golfieri©

Alfabeto di strade (e altre vite) a cura di Giancarlo Porcu è uscito per il Maestrale.
La prefazione è di Alberto Bertoni, la Nota all’edizione e sulle rime sarde è di Giancarlo Porcu.
La selezione, che offre un panorama sulla mia scrittura negli anni, è divisa in due sezioni e cinque parti:

LIBRETTI
un paio di libretti ormai introvabili. Fra tutti, quelli di sorte più fortunata, come Taliban, uscito anche in edizione statunitense e francese, o Nella casa del boia (In the executioner’s house), uscito finora solo negli USA. Ambedue hanno l’introduzione di Jack Hirschman.

ALFABETO DI STRADE
– la leggerezza [1987-1993, 12 testi] di venti o trent’anni fa… cercando coraggio.
– il ritmo [1985-2004, 12 testi] della poesia di strada, quando ancora rifiutavo la pubblicazione su carta… e si creda che non è facile per me vedere linearizzato ciò che è stato concepito come canto, voce, fino alla percussione… ho davvero compiuto uno sforzo di coercizione.
– il condominio [8 testi], un dialogo infinito colto allo stato attuale: il più facile da scegliere perché evidentemente generato già nella stesura cartacea.
a tenore [9 testi], canti in sardo, prevalentemente d’occasione, che nella loro forma tradizionale mostrano quale sia la mia vera formazione prescolastica: la grande eredità della poesia sarda cantata, quella che rende conto immediatamente ai propri ascoltatori, e nella quale sono stato allevato naturalmente fin da bambino: infatti è il sardo la mia prima lingua.

C’è anche una Nota dell’autore da cui riporto uno stralcio:

Dovevo scegliere. E, malgrado me stesso, ho scelto. Queste poesie e non altre… anzi, più che scelto, ho lasciato che sopravvivessero al loro naturale e congenito superamento. Un gesto che rasenta la generosità, dato che non insisto nell’amare ad oltranza ciò che scrivo.
Senza zappa sui piedi: ho serena consapevolezza che la scrittura, almeno la mia, sia una propaggine, un sunto di esistenza… di esistenze, che velocemente sa distaccarsi dalle miserie del corpo che l’ha provocata. Non ne soffro: sono fermamente convinto che l’unica cosa buona sia quella che ancora non ho scritto. E cerco di conservare questa tensione che forse mi permetterà di continuare a cercare finché vivo. Non rinnego niente, ma sono già oltre da subito: la santificazione appartiene a coloro che fanno della poesia una forma di realizzazione o di rappresentazione. Io ne faccio necessità e strumento per praticare autonomia interiore, coltivarne la tensione, poterla testimoniare, e non essere punito per questo.
Penso che le fasi della poesia siano quattro, e non abbiano necessariamente una corrispondenza anagrafica: l’infanzia, in cui ci entusiasmiamo ricopiandone i colori; l’adolescenza, in cui dobbiamo affermare l’essere siglando le nostre tags sull’anima; la maturità, in cui la forma ci incanta. La più pericolosa, quella che agita lo spettro della fama… e sappiamo bene che la fama è un cecchino che tira sul narciso, un terreno dove i più cadono e ne muoiono annoiandoci con la loro morte; e finalmente l’oltre, l’età della scrittura senza età, quella che non può parlare in nostro nome. È a questa che ci rivolgiamo, in questa possiamo celebrare la festa dell’alleggerimento dall’io, dove i poeti che ci hanno preceduti ci stanno già osservando.

Finita di improvvisare alle 14,07 in risposta (affettuosa) a Nanni Falconi su Corona de Logu. E’ scritta in logudorese di Pattada, lingua di Nanni, in endecasillabi per essere cantata “a tenore”, e se qualcuno tenta di normalizzarla nde li sego sas francas a mossu (gli stacco le mani con un morso).

qui sotto il testo

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