In rete ho trovato una bella intervista a Beppe Ramina, che dice molto e con chiarezza sull’impegno etico e politico. Beppe è un vecchio amico che non si è mai dimesso dalle proprie responsabilità e, dopo tanti anni, fa piacere ritrovarlo intatto. Parla dell’omosessualità in relazione con la politica, un discorso che oggi si sente fare molto raramente.
Io sono un “etero-militante”, ma vorrei vantarmi di essere stato uno dei primi a varcare la soglia del Cassero, lo storico centro di cultura ed incontro omosessuale a Bologna, ed aver partecipato come artista (sempre etero) al Gay Pride
Bei tempi, quando l’esigenza di liberazione ci affratellava e assorellava tutti. Sapevamo con certezza che quelle non erano battaglie ‘di genere’, ma solo etiche, umane…
Si faceva politica nel modo più divertente che si possa immaginare. Ci eravamo liberati del peso dell’ideologia per trasformarla in ideale, in idea etica, e, soprattutto, in pensiero del quotidiano.

Cito alcuni passaggi dell’intervista a Beppe.
Qui per continuare a leggerla tutta…

« (….) Al di là del rapporto con i partiti, mi pare che sia l’adozione stessa di categorie politiche a indebolire l’energia che avrebbe il pieno dispiegarsi del discorso delle sessualità dei generi, delle omosessualità, del nomadismo identitario. Penso che all’origine della debolezza di visione ci sia qualcosa che affonda nella cultura, che ha a che fare con l’introiezione del pregiudizio omofobico. Da qui un’idea minoritaria di noi stessi, come comunità di persone e come singoli individui; la convinzione, declinata in vari modi, di essere una minoranza e non una parte della società. Agisce altrettanto negativamente la radicata ed estesa convinzione che esistano per davvero persone eterosessuali e persone omosessuali – e che non siano costruzioni sociali – e che il nomadismo erotico e affettivo non sia l’orizzonte di riferimento. Infine, la percezione diffusa di essere vittime e non protagonisti. (….)»

«Le premetto che non sono d’accordo con chi pensa che i successi a livello istituzionale siano la misura della nostra forza e del nostro benessere. Nel momento in cui siamo protagonisti della nostra vita e della nostra storia abbiamo già ottenuto la sostanza di ciò che ci serve: la mia serenità e la mia libertà, anche di lottare, non dipendono dalle concessioni dello Stato o del Vaticano, ma dal darmi valore e agire in autonomia (….)».

pubblico integralmente una bella lettera di Franco Berardi (Bifo) che è apparsa su ReKombinant:
[RK] Che dirò ai miei studenti nel giorno della memoria?

L’ho trovata talmente chiara ed importante da sentire la necessità di farla risuonare. D’altronde la funzione di questo blog è sempre stata quella di riecheggiare le voci intelligenti. In questo senso la mia voce non diventa necessaria quando ne appare un’altra così limpida…

Un caro abbraccio ed un ringraziamento a Bifo, filosofo e pensatore ad oltranza, nonché insegnante in una scuola serale di Bologna. Per chi vuole conoscerlo meglio: su questo sitoo su Wikipedia
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«hai fatto una strage di bambini e hai dato la colpa ai loro genitori dicendo che li hanno usati come scudi. Non so pensare a nulla di più infame (…) li hai chiusi ermeticamente in un territorio, e hai iniziato ad ammazzarli con le armi più sofisticate, carri armati indistruttibili, elicotteri avveniristici, rischiarando di notte il cielo come se fosse giorno, per colpirli meglio. Ma 688 morti palestinesi e 4 israeliani non sono una vittoria, sono una sconfitta per te e per l’umanità intera».

(Stefano Nahmad, la cui famiglia ha subito le persecuzioni naziste)

Insegno in una scuola serale per lavoratori, in gran parte stranieri.
E’ un ottimo osservatorio per capire quel che accade nel mondo.
L’anno scorso, avvicinandosi il giorno della memoria che ogni anno si celebra nelle scuole, leggemmo brani dal libro Se questo è un uomo di Primo Levi. Avevamo parlato molto della questione ebraica, e della storia del popolo ebreo dalle epoche lontane al ventesimo secolo. Proposi che tutti scrivessero un breve testo sugli argomenti di cui avevamo parlato.
Claude D, un ragazzo senegalese di circa venti anni, piuttosto pigro ma dotato di vivacissima intelligenza concluse il suo lavoro con queste parole: “Ogni anno si fanno delle cerimonie per ricordare lo sterminio degli ebrei, ma gli ebrei non sono i soli che hanno subito violenza. Perché ogni anno dobbiamo stare lì a sentire i loro pianti quando altri popoli sono stati ammazzati ugualmente e nessuno se ne preoccupa?”
Questa frase mi colpì, e decisi di proporla alla discussione della classe, in cui oltre Claude c’erano cinque italiani due marocchini un peruviano una brasiliana, un somalo, due ragazze romene una ucraina e due russi. L’opinione di Claude era quella di tutti. Sia ben chiaro: nessuno mise in dubbio la verità storica dell’Olocausto, neppure Yassin, un ragazzo marocchino appassionato alla causa palestinese e sempre pronto a criticare con durezza Israele. Tutti avevano seguito con attenzione e partecipazione la lettura delle pagine di Primo Levi.
Però tutti mi chiedevano: perché non si fanno cerimonie pubbliche dedicate allo sterminio dei rom, dei pellerossa, o allo sterminio in corso dei palestinesi? Claude a un certo punto uscì fuori con una frase che non potevo contestare: perché nessuno ha pensato a un giorno della memoria dedicato all’olocausto africano? Pensai ai milioni di suoi antenati deportati da negrieri schiavisti, pensai all’irreparabile danno che questo ha prodotto nella vita dei popoli del golfo d’Africa occidentale, e conclusi il discorso in maniera che a tutti apparve risolutiva (vorrei quasi dire salomonica): “Nel giorno della memoria si ricorda l’Olocausto ebraico perché attraverso questo sacrificio si ricordano tutti gli Olocausti sofferti dai popoli di tutta la terra.”

Ammesso che la parola “identità” significhi qualcosa, e non lo credo, per me l’identità non è definita dal sangue e dalla terra, blut und boden come dicono i romantici tedeschi, ma dalle nostre letture, dalla formazione culturale e dalle nostre mutevoli scelte. Perciò io affermo di essere ebreo. Non solo perché ho sempre avuto un interesse fortissimo per le questioni storiche e filosofiche poste dall’ebraismo della diaspora, non solo perché ho letto con passione Isaac Basheevis Singer e Abraham Jehoshua, Gerhom Sholem, Akiva Orr, Else Lasker Shule e Daniel Lindenberg, ma soprattutto perché mi sono sempre identificato profondamente con ciò che definisce l’essenza culturale dell’ebraismo diasporico. Nell’epoca moderna gli ebrei sono stati perseguitati perché portatori della Ragione senza appartenenza. Essi sono l’archetipo della figura moderna dell’intellettuale. Intellettuale è colui che non compie scelte per ragioni di appartenenza, ma per ragioni universali. Gli ebrei, proprio perché la storia ha fatto di loro degli apatridi, hanno avuto un ruolo fondamentale nella costruzione della figura moderna dell’intellettuale ed hanno avuto un ruolo fondamentale nella formazione dell’Illuminismo e della laicità, e anche dell’internazionalismo socialista.
Come scrive Singer, nelle ultime pagine del suo Meshugah: “La libertà di scelta è strettamente individuale. Due persone insieme hanno meno libertà di scelta di quanto ne abbia una sola, le masse non hanno virtualmente nessuna possibilità di scelta.”
Per questo io sono ebreo, perché non credo che la libertà stia nell’appartenenza, ma solamente nella singolarità. So bene che nel ventesimo secolo gli ebrei sono stati condotti dalla forza della catastrofe che li ha colpiti, a identificarsi come popolo, a cercare una terra nella quale costituirsi come stato: stato ebraico. E’ il paradosso dell’identificazione. I nazisti costrinsero un popolo che aveva fatto della libertà individuale il valore supremo ad accettare l’identificazione, la logica di appartenenza e perfino a costruire uno stato confessionale che contraddice le premesse ideologiche che proprio il contributo dell’ebraismo diasporico ha introdotto nella cultura europea.
In Storia di amore e di tenebra scrive Amos Oz: “Mio zio era un europeo consapevole, in un’epoca in cui nessuno in Europa si sentiva ancora europeo a parte i membri della mia famiglia e altri ebrei come loro. Tutti gli altri erano panslavi, pangermanici, o semplicemente patrioti lituani, bulgari, irlandesi slovacchi. Gli unici europei di tutta l’Europa, negli anni venti e trenta, erano gli ebrei. In Jugoslavia c’erano i serbi i croati e i montenegrini, ma anche lì vive una manciata di jugoslavi smaccati, e persino con Stalin ci sono russi e ucraini e uzbeki e ceceni, ma fra tutti vivono anche dei nostri fratelli, membri del popolo sovietico.”

Il mio punto di vista sulla questione mediorientale è sempre stato lontano da quello dei nazionalisti arabi. Avrei mai potuto sposare una visione nutrita di autoritarismo e di fascismo? E oggi potrei forse sposare il punto di vista dell’integralismo religioso che pervade la rabbia dei popoli arabi e purtroppo ha infettato anche il popolo palestinese nonostante la sua tradizione di laicismo? Proprio perché non ho mai creduto nel principio identitario non ho mai provato
particolare affezione per l’idea di uno stato palestinese. I palestinesi sono stati costretti all’identificazione nazionale dall’aggressione israeliana che dal 1948 in poi si è manifestata in maniera brutale come espulsione fisica degli abitanti delle città, come cacciata delle famiglie dalle loro abitazioni, come espropriazione delle loro terre, come distruzione della loro cultura e dei loro affetti. “Due popoli due stati” é una formula che sancisce una disfatta culturale ed etica, perché contraddice l’idea – profondamente ebraica – secondo cui non esistono popoli, ma individui che scelgono di associarsi. E soprattutto contraddice il principio secondo cui gli stati non possono essere fondati sull’identità, sul sangue e sulla terra, ma debbono essere fondati sulla costituzione, sulla volontà di una maggioranza mutevole, cioè sulla democrazia.
Pur avendo un interesse intenso per l’intreccio di questioni che la storia ebraica passata e recente pone al pensiero, non ho mai scritto su questo argomento neppure quando l’assedio di Betlemme o il massacro di Jenin o l’orribile violenza simbolica compiuta da Sharon nel settembre del 2000 o i bombardamenti criminali dell’estate 2006 provocavano in me la stessa ribellione e lo stesso orrore che provocavano gli attentati islamici di Gerusalemme o di Netanja o gli omicidi casuali di cittadini israeliani provocati dal lancio di razzi Qassam.
Non ho mai scritto nulla, (mi dispiace doverlo dire), perché avevo paura. Come ho paura adesso, non lo nascondo. Paura di essere accusato di una colpa che considero ripugnante – l’antisemitismo. So di poter essere accusato di antisemitismo a causa della convinzione, maturata attraverso la lettura dei testi di Avi Shlaim, e di cento altri studiosi in gran parte ebrei, che il sionismo, discutibile nelle sue scelte originarie, si è evoluto come una mostruosità politica. Pur avendo paura non posso però più tacere dopo aver discusso con lo studente Claude. Considero il sionismo causa di infinite ingiustizie e sofferenze per il popolo palestinese, ma soprattutto lo considero causa di un pericolo mortale per il popolo ebraico. A causa della violenza sistematica che il sionismo ha scatenato negli ultimi sessant’anni, la bestia antisemita sta riemergendo, e sta diventando maggioritaria se non nel discorso pubblico nel subconscio collettivo.
Dato che non è possibile affermare a viso aperto che il sionismo è una politica sbagliata che produce effetti criminali, molti non lo dicono, ma non possono impedirsi di pensarlo.
Aprendo la discussione sulle parole dello studente Claude, ho scoperto che gli altri studenti, italiani e marocchini, romeni e peruviani, che pure nel loro svolgimento avevano trattato la questione secondo gli stilemi politicamente corretti, costretti ad approfondire il ragionamento e a far emergere il loro vero sentimento, finivano per identificare il sionismo con il popolo ebraico e quindi a ripercorrere la strada che conduce verso l’antisemitismo. Considerando criminale e arrogante il comportamento dello stato di Israele, identificandosi spontaneamente con il popolo palestinese vittimizzato, finivano inconsapevolmente per riattivare l’antico riflesso anti-ebraico.
Proprio la rimozione e il conformismo che si coltivano nel giorno della memoria stanno producendo nel subconscio collettivo un profondo antisemitismo che non si confessa e non si esprime. Perciò credo che occorra liberarsi della rimozione e denunciare il pericolo che il sionismo aggressivo rappresenta soprattutto per il popolo ebraico.
Trasformare la questione ebraica in un tabù del quale è impossibile parlare senza incorrere nella stigmatizzazione benpensante sarebbe (anzi è già) la condizione migliore per il fiorire dell’antisemitismo.

Si avvicina il 27 gennaio, che sarà anche quest’anno il giorno della memoria. Come potrò parlarne nella classe in cui insegno quest’anno?
Non c’è più Claude, ma ci sono altri ragazzi africani e arabi e slavi ai quali non potrò parlare dell’immane violenza che colpì il popolo ebraico negli anni Quaranta senza riferirmi all’immane violenza che colpisce oggi il popolo palestinese. Se tacessi questo riferimento apparirei loro un ipocrita, perché essi sanno quel che sta accadendo.
E come potrò tacere le analogie tra l’assedio di Gaza e l’assedio del Ghetto di Varsavia del quale abbiamo parlato recentemente? E’ vero che gli ebrei uccisi nel ghetto di Varsavia nel 1943 furono 58.000 mentre i morti palestinesi sono per il momento solo mille. Ma come dice Woody Allen i record sono fatti per essere battuti. La logica che ha preparato la ghettizzazione di Gaza (che un cardinale cattolico ha definito “campo di concentramento”) non è forse simile a quella che guidò la ghettizzazione degli ebrei di Varsavia? Non vennero forse gli ebrei di Varsavia costretti ad ammassarsi in uno spazio ristretto che divenne in poco tempo un formicaio? Non venne forse costruito intorno a loro un muro di cinta della lunghezza di 17 chilometri di tre metri di altezza esattamente come quello che Israele ha costruito per rinchiudere i palestinesi? Non venne agli ebrei polacchi impedito di uscire dai valichi che erano controllati da posti di blocco militari?
Per motivare la loro aggressione che uccide quotidianamente centinaia di bambini e di donne, i dirigenti politici israeliani denunciano i missili Qassam che in otto anni hanno causato dieci morti (tanti quanti l’aviazione israeliana uccide in mezz’ora). E’ vero: è terribile, è inaccettabile che il terrorismo di Hamas colpisca la popolazione civile di Israele. Ma questo giustifica forse lo sterminio di un popolo? Giustifica il terrore indiscriminato, la distruzione di una città? Anche gli ebrei di Varsavia usarono pistole, bombe a mano, bottiglie molotov e perfino un mitra per opporsi agli invasori. Armi del tutto inadeguate, come lo sono i razzi Qassam. Eppure nessuno può condannare la difesa disperata degli ebrei di Varsavia.
Cosa posso dire, dunque, nel giorno della memoria? Dirò che occorre ricordare tutte le vittime del razzismo, quelle di ieri e quelle di oggi. O questo può valermi l’accusa di antisemitismo?

Se qualcuno vuole accusarmi a questo punto non mi fa più paura. Sono stanco di impedirmi di parlare e quasi perfino di pensare ciò che appare ogni giorno più evidente: che il sionismo aggressivo, oltre ad aver portato la guerra e la morte e la devastazione al popolo palestinese, ha stravolto la stessa memoria ebraica fino al punto che nelle caserme israeliane sono state trovate delle svastiche, e fino al punto che cittadini israeliani bellicisti hanno recentemente insultato cittadini israeliani pacifisti con le parole “con voi Hitler avrebbe dovuto finire il suo lavoro”.
Proprio dal punto di vista del popolo ebraico il sionismo aggressivo può divenire un pericolo mortale. L’orrenda carneficina che Israele sta mettendo in scena nella striscia di Gaza, come i bombardamenti della popolazione di Beirut due anni fa, sono segno di demenza suicida. Israele ha vinto tutte le guerre dei passati sessant’anni e può vincere anche questa guerra contro una popolazione disarmata. Ma la lezione che ne ricavano centinaia di milioni di giovani islamici che assistono ogni sera allo sterminio dei loro fratelli palestinesi è destinata a far sorgere un nuovo nazismo.
Israele può sconfiggere militarmente Hamas. Può vincere un’altra guerra come ha vinto quelle del 1948 del 1967 e del 1973. Può vincere due guerre tre guerre dieci guerre. Ma ogni sua vittoria estende il fronte dei disperati, il fronte dei terrorizzati che divengono terroristi perché non hanno alcuna alternativa. Ogni sua vittoria approfondisce il solco che separa il popolo ebraico da un miliardo e duecento milioni di islamici. E siccome nessuna potenza militare può mantenere in eterno la supremazia della forza, i dirigenti sionisti aggressivi dovrebbero sapere che un giorno o l’altro l’odio accumulato può dotarsi di una forza militare superiore, e può scatenarla senza pietà, come senza pietà oggi si scatena l’odio israeliano contro la popolazione indifesa di Gaza.

franco berardi, 15/01/2009
04. Dicembre 2007 · Commenti disabilitati su il diavolo e l’acquasanta – 14 dicembre · Categorie:blog news · Tag:, , , , , , , ,


Un luogo comune – volgari dicerie strumentalmente diffuse per oscure questioni di potere prima dalla famiglia Savoia e in seguito riprese dalla famiglia Agnelli – indicano la sede del triangolo alchemico a Torino. Ma noi sappiamo che, se esistono davvero, il diavolo e l’acquasanta hanno certamente origine in Sardegna e solo lì possono manifestarsi nella loro vera essenza.

Michela Murgia ed Alberto Masala, due notissimi medium sardi che agiscono con lo strumento della scrittura evocativa, sospinti nelle loro accurate e costanti ricerche da un sacro amore, hanno scoperto l’unico giorno, l’ora e il luogo esatto in cui il diavolo e l’acquasanta (se esistono) si materializzeranno.

L’apparizione (se avverrà) sarà di venerdì. Il giorno 14 (due volte 7) del dodicesimo (due volte 6) mese dell’anno 2007 (!) dimostreranno l’inconsistenza delle radici del Manicheismo sfidandolo sullo stesso terreno che esso privilegia: quello della parola e della sua pronuncia verbale. Il rituale alchemico si effettuerà nei pressi della Torre Tonda, a casa di Odradek, a Sassari (tre volte S), alle ore 18 (tre volte 6).

Riassumendo…
venerdì 14 dicembre 2007
alle ore 18
presso il caffè letterario Odradek
via Torre Tonda, 42 a Sassari
incontro con
Michela Murgia e Alberto Masala

alberto masala e michela murgia
L’ingresso è libero. Si prega soltanto di indossare un abbigliamento adatto
Libreria Odradek – Caffè letterario – Via Torre Tonda 42 – Sassari – tel. 079 232189
links – OdradekMichela MurgiaAlberto Masala

on line il nuovo numero di Soliana
rivista di arti, cinema, poesia, filosofia e letteratura
redatta da Mimmo Bua, Fabrizio Derosas, Francesca Falchi e Bruno Pittau

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