#ROSSELLA URRU LIBERA.

Felicità immensa. Solo un appunto: @La27ora del #corriere.it parla del “codice sardo”.

In buona fede, certo, ma a sproposito: ecco un’altra stronzata folclorica! Ed ogni volta mi sorprende l’incapacità degli italiani di leggere le altre culture. Anche, e soprattutto, quelle di casa propria.

Si confonde la riservatezza, l’attitudine culturale a non esibire i sentimenti con una questione di codice, con tutti i luoghi comuni su di noi che hanno infarcito le letterature: durezza, silenzio, vendetta, ostinazione, fedeltà… e via così con tutte le balle di cui i colonizzatori ci hanno riempito la testa. La cosa più grave è che noi le tolleriamo, le assumiamo come valore, e continuiamo a farci descrivere, a farci raccontare chi siamo da loro: quelli che non hanno mai saputo né leggerci né scriverci.

Il primo passaggio verso la decolonizzazione parte proprio da qui: dobbiamo avere la capacità di farli noi stessi i racconti su di noi. Altrimenti continueremo ad alimentare il loro paternalismo che affettuosamente alimenterà la nostra “barra”.

La cultura sarda dell’interno è una cultura montanara e pastorale. Questo non vuol dire che è più forte (la storia lo racconta bene). Vuol solo dire che i parametri dei comportamenti sociali sono “altri”, diversi da quelli della cultura contadina. Forse né migliori né peggiori, solo altri, differenti.

Nella visione dei comportamenti sociali della cultura pastorale la riservatezza si oppone al rumore, il forte senso del privato si oppone alla necessità dell’esibizione pubblica, il clamore è considerato sintomo di impotenza e di incapacità di affrontare le cose con razionalità, chi urla per strada è commiserato o considerato un folle. Questo si riproduce nell’educazione strutturalmente e costituzionalmente.

Un messaggio agli italiani, dunque: non si può leggere una civiltà pastorale con i parametri della civiltà contadina. Una civiltà a tradizione matrilineare con i parametri di una civiltà patriarcale.
Per parlare dei Sardi, per favore, si parta sempre da lì e ci si informi prima.

Allora sarà da considerare normale il comportamento discreto e non esibizionista della famiglia di Rossella. Tutti sapevano quanto profonda era la disperazione, il dolore, la paura, ancora più vera perché non esibita. Quanto, nell’intimo delle pareti familiari, al riparo dalla morbosità degli sguardi, tutto questo sia stato vissuto con smarrimento e speranza quotidiana. E il rispetto per questi comportamenti non li consegna al mito, ma li fa condividere con tutti quelli che sinceramente hanno sofferto e trepidato per la sorte di Rossella. Tutti avevamo certezza di quel dolore. Ed ognuno di noi ha, pateticamente forse, inadeguatamente, cercato di assumersene il carico anche con gesti pubblici. Il coraggio di Rossella ha matrici certe nella sua famiglia. Rispetto allora: chi è nato lì sa riconoscerle e loro non hanno bisogno di far ricorso a teatralizzazioni.

Il teatro non fa parte della cultura della Sardegna ed è stato introdotto artificialmente nel Novecento. Ma è culturale invece la celebrazione collettiva del dolore, misurata, a tempo e a luogo, senza esibizione. E si esprime soprattutto nella solidarietà emotiva e sociale.

Chiudo questo commento con un episodio che mi riguarda personalmente.
Mia madre, quando è morto mio padre, è stata tre giorni chiusa in una stanza a cui potevano accedere solo i suoi figli ed un paio di amiche fidate. Il dolore era tale e tanto profondo da non farla partecipare nemmeno al funerale: “Non voglio dar spettacolo” diceva… E nessuno ha mai pensato che non fosse sincera nella sua sofferenza. Anzi… abbiamo perfino avuto paura che ne morisse di quel dolore.

Non è una questione di codici, solo di dignità…

Sardi, conserviamoci così. Ma con consapevolezza e senza farcelo raccontare dagli altri.

ORA FACCIAMO FESTA TUTTI INSIEME

 

una nota successiva

Non mi va di dare addosso alla giornalista Elvira Serra. Non ho dubbi sulla sua professionalità, non lo merita di sicuro e non trovo “spaventoso” quello che dice. Anzi, forse, preso nel VERSO GIUSTO e in buona fede, potrebbe essere un incentivo a coltivare l’attitudine alla sobrietà. Cosa alla quale i media ci hanno disabituati interpretando alla perfezione l’avanzare di una tendenza che ha matrici lontane, dalla Milano da bere al Berlusconismo, e che ha pervaso orizzontalmente TUTTE le classi sociali e i livelli del pensiero, da destra a sinistra.
Benjamin e Debord, con anticipazioni preziose, ne avevano letto lucidamente il fenomeno narrando come i sistemi assegnino la delega storica alla cultura e ai media. Tutto succede quando nella vita reale irrompe la “rappresentazione della vita” che assume rutilanti modelli di successo e apparenza. Niente è più comodo al potere. Ma il discorso sarebbe lungo e andrebbe approfondito.
Il VERSO SBAGLIATO invece, quello che mi ha fatto reagire – più per prudenza e istinto alla vigilanza sull’uso simbolico delle parole, che per reali responsabilità della giornalista – è il modello che inserisce una devastante idea di “balentìa”, altrettanto comoda ai poteri. Questa lascia i valori in superficie amministrandoli solo nei comportamenti apparenti. Lo stesso è stato fatto con i tuareg e gli indiani d’America… non è un fenomeno solo “sardo”.
In questo processo l’elemento più affidabile è quello dell’auto-convincimento dei colonizzati: dell’auto-colonizzazione.
Ma c’è tempo per discutere e approfondire, anche, eventualmente, con la giornalista che considero incolpevole e in buona fede.

ORA PENSIAMO SOLO A FESTEGGIARE ROSSELLA.

i miei fratellini di scoglio… da tempo ci vogliamo bene… da tempo collaboriamo… da tempo sostengo che la loro arte è ciò di cui si ha bisogno. Oggi più che mai. Grazie a Zianu, grazie a tutti loro

StranosElementos   –   Az.Namusn.Art

NOI TENIAMO ANCORA!

Non basta condannare l’omicidio freddo e violento di Samb Modou e Diop Mor, i due migranti senegalesi uccisi a Firenze.
Non basta sperare che Moustapha Dieng vinca la sua battaglia contro la morte e che gli altri feriti guariscano in fretta.
Non basta esprimere solidarietà alle famiglie dei morti e ai feriti. La solidarietà adesso costa poco e conta ancor meno.
Non siamo di fronte al gesto improvviso di un fascista folle.

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Patrizia Moretti, madre di Federico Aldrovandi, è rinviata a giudizio insieme al direttore e due 
giornalisti della Nuova Ferrara. L'accusa e' di diffamazione a mezzo stampa, la querela è stata 
avanzata dalla pm Maria Emanuela Guerra, la prima ad occuparsi del caso Aldrovandi, mentre 
il 17 maggio a Bologna sarà la prima udienza del Processo d'Appello ai quattro poliziotti 
condannati per la morte di Federico. 
''Non avrei mai immaginato - ha detto Patrizia Moretti - di ritrovarmi imputata per aver criticato 
chi non aveva fatto le prime indagini sulla morte di mio figlio''.
Riporto qui sotto la lettera che Patrizia Moretti ha scritto sul blog
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Bianca Pitzorno: una sua bellissima lettera da “la Nuova Sardegna” del 12 febbraio 2011

Care ragazze ‘usa e getta’
di Bianca Pitzorno

Care Noemi, Iris e Karima, care sorelline minori, care giovanissime amiche nell’occhio della bufera, domani io sarò in piazza. Sarò in piazza non contro di voi, ma anche per voi, ragazzine che solo pochi anni fa avreste potuto essere mie lettrici. Quando nel 2009 lessi i primi spontanei racconti di Noemi appena diciottenne sulla sua “amicizia” che durava da diversi anni; quando vidi il suo viso angelico (anche a me fece questa impressione) alla festa del compleanno, e più avanti il suo book con foto molto diverse, il mio primo pensiero fu: “Bambina mia, ma cosa ti hanno fatto?”.

Per un lungo periodo della mia vita ho dedicato la mia scrittura a voi ragazzine, ho raccontato la vostra vita, i vostri sofferti rapporti con “i grandi”, e da voi sono stata letta, amata e scelta a confidente.

Ho visto come cambiavano nel corso del tempo i modelli che vi offrivano gli adulti, e come molte di voi cadevano per fragilità nella trappola. Se negli anni Ottanta mi scrivevate per discutere di filosofia, di giustizia, di religione, di senso della vita, di come sognavate il vostro futuro e di come volevate cambiare il mondo, in seguito le vostre lettere cominciarono a esprimere soltanto l’ammirazione e l’invidia perché “ero famosa”, perché avevo lavorato alla Rai; cominciarono a dichiarare il vostro desiderio di “sfondare” in tv.

Se prima volevate raggiungere la notorietà, anche televisiva per qualcosa di grande, bello e utile che avevate fatto – scoprire la cura definitiva per il cancro, debellare la fame nel Terzo Mondo, andare sulla luna – adesso il vostro desiderio di apparire era fine a sé stesso, mero certificato di esistenza.

Vi stavano convincendo pian piano a rinunciare all’autostima, a non volervi bene, a non sognare alto. E voi, nella fase delicata e fragile della vostra formazione, vi adeguavate ai modelli che arrivavano con insistenza martellante dal teleschermo, vi rassegnavate a specchiarvi negli occhi di quegli adulti che dell’a dolescenza apprezzano solo la freschezza del corpo, e ne temono gli entusiasmi e l’utopia. Noi sorelle maggiori abbiamo cercato di opporci, di mostrarvi altri modelli.

Per questo ci siamo prese, come ci prendiamo oggi, delle bacchettone e delle moraliste; delle vecchie invidiose dei successi da voi raccolti grazie alla vostra freschezza. Quelli che giorno dopo giorno vi riducevano a “cose”, a merce da comprare e vendere, sono gli stessi che in Parlamento insultavano Rita Levi Moltalcini con l’epiteto di “pannolone”. Sono gli stessi che in piazza gridavano di voler difendere la santità della famiglia.

Quelli che a gran voce strillavano chiedendo di togliere la vergogna della prostituzione dalle strade, da sotto gli occhi puri dei loro figli, e poi compravano nei vialoni bui le prostitute bambine dell’Est Europa, incrementandone il traffico, favorendone di fatto la riduzione in schiavitù. Che le nuove schiave fossero adolescenti di 14, 15, 16 anni saltava agli occhi di chiunque. Ma i loro utilizzatori finali stragiuravano di essere stati ingannati dalle astute ragazzine, di essere convinti in buona fede che la merce da loro comprata avesse più di vent’anni e dunque fosse “ legale”. Che dietro alla protestata libertà di prostituirsi ci fosse un’organizzazione, vietata questa sì dalla legge anche per le maggiorenni, rifiutavano di vederlo.

Se è vero quello che sostiene l’accusa, se risulterà che davvero avete fatto e ricevuto quelle telefonate, anche nel vostro caso ci sarebbe stata una organizzazione e scarsissima reale libertà. Vi avrebbero adocchiato, selezionato, messo a catalogo, confezionato, consegnato al domicilio del cliente.

Come pacchi, come merce di lusso, non come esseri umani. Già lo avete capito: quei ricchi e anziani signori che vi avrebbero venduto e comprato non sono vostri amici, non vi difenderanno, non vi proteggeranno, anche se ora vi offrono altro denaro e l’a ssistenza dei loro astutissimi e costosi avvocati. Il cui scopo è unicamente quello di salvare – con le bugie che vi suggeriscono, che vi impongono – i loro clienti. E voi come sempre, dopo l’uso, verrete buttate a mare.

Io e molte altre donne che potremmo essere le vostre madri, questo lo sappiamo bene e – insieme a molti uomini decenti che potrebbero essere vostri padri o fratelli – domani non manifesteremo contro di voi, non intendiamo sottolineare la nostra virtù dichiarandola superiore al vostro vizio.

Noi ci schiereremo al vostro fianco come uguali, per difendere oltre al nostro, il vostro valore di persone, per raccontarvi che nonostante quello che vi hanno detto i cinici e interessati mezzani, una donna si può realizzare, può guadagnarsi la vita, si può divertire, può essere utile, può “esistere” agli occhi degli altri – e persino essere felice – in un altro modo, senza rinunciare alla propria dignità.

Per raccontarvi, noi “bacchettone”, che il sesso non è squallido esercizio di sopraffazione riservato ai ricchi viziosi, ma può essere, per tutti e per tutte, una scelta libera, una attività piacevole, gratuita e pulita. Siete giovani ancora, e potete ancora essere felici e libere. Ve lo auguro di tutto cuore.

(12 febbraio 2011)

il 13 febbraio sarò in piazza col movimento delle donne

e anch’io voglio farmi rappresentare da un volto femminile in cui mi identifico: quello di mia madre

mia madre col vestito della festa – Pattada, un inverno fra il 1944 e il 1947
a quelli che pensano che tutto si possa comprare…
a quelli che invece resistono…
a quelli che parlano d’arte…
a quelli che dicono di fare arte…
a quelli che vanno a tutti i vernissages…
a quelli che guardando l’arte pensano “com’è rivoluzionaria”…
a quelli che “la creatività”…
a quelli che “io sono un artista”
o peggio “io sono un giovane artista”…
ai “curatori” che cercano di “curare” l’arte da tutto ciò che possa infastidire…
il mural di blu al Moca di Los Angeles

Da sempre medito, parlo e scrivo sulla funzione dell’arte nel contesto sociale contemporaneo. Senza tanti giri di parole, la sorte dell’opera di BLU a Los Angeles è esemplare per chiarire qual’è il rapporto fra la gestione di sistemi di controllo sociale e le voci “altre”.

Il sistema – che qui per comodità chiameremo MOCA, ovvero Museum of Contemporary Art di Los Angeles – vista la fama del nostro amico, gli commissiona un’opera senza considerare per cosa e perché lui è così famoso.

Pensando di poter comprare tutto, e con la lungimiranza di cui sono sicuramente dotati i curatori americani o di qualsiasi altro posto – tranne quasi tutti quelli italiani, universalmente noti per la loro vigliaccheria e la propensione all’arte che conviene, tranquillizzante e decorativa – ingaggiano chi oggi agisce in evidenza, chi mostra genialità, quelli che loro chiamano, con un termine orribile e carico di superficialità, i creativi.

Ma è un tentativo che spesso si ritorce contro la visione dell’arte di cui sono fautori. Un’arte pacificante che, appiattendo tutto, conforta una società repressiva che, per chiamarsi democratica, ha bisogno di affidare alla rappresentazione che ne fanno gli artisti in una specie di psicodramma collettivo il concetto fondante (e sempre fittizio) della loro democrazia: la libertà. Qui siamo liberi, vedete? Si può parlare di qualsiasi cosa… scordandosi di aggiungere un concetto funzionale: “purché gestibile”.
Con la maggior parte degli artisti gli va bene: loro tacciono, fingono, sono complici, lavorano insieme sulla produttività dello ‘scandalo’ e, nonostante Benjamin e Debord ne avessero già smascherato i meccanismi quaranta o cinquant’anni fa, ne gestiscono i ritorni economici e mediatici.
Loro ottengono di confortare il sistema con ‘circenses di qualità’ gli artisti guadagnano bene e, soprattutto, guadagna ancora meglio il loro EGO: li fanno entrare nel meccanismo della gloria e della fama…

Ma qualche volta gli va storta, specialmente se fanno il passo più lungo della gamba rivolgendosi a quelle ‘arti pericolose’ come la street art, che, per sua stessa definizione, non accetta di essere deportata in quei leccatissimi lager del pensiero artistico che oggi sono i musei, e né tantomeno di essere ridimensionata a pop art.

Ecco un bell’articolo con tanti links che racconta delle disavventure di Jeffrey Deitch, lo sprovveduto curatore del MOCA che, da ex mercante d’arte discutibilmente assurto a gestore di pensiero, credeva, come molti anche qui in Italia, che tutto ha un prezzo.

Finché poi ha incontrato BLU che l’ha fatto pentire…

Da qui gli mando un abbraccio riconoscente.
Grazie per tutti noi, Blu.
E RIPARLIAMO D’ARTE

4 gennaio: aggiornamento

Con un intervento di solidarietà degli street artists di Los Angeles, fra cui Joey Krebs, noto come The Phantom Street Artist, e dell’artista Chicano Leo Limon, veterano della guerra in Vietnam, il discorso iniziato da Blu va ancora avanti ottenendo così ulteriore visibilità e quindi ancora maggior effetto. Poveri censori: è la storia che si ripete rimettendoli spietatamente sempre davanti alla loro stessa stupidità.  Ecco qui l’articolo con le foto addirittura sul Los Angeles Times. Qui sotto il video.


Downtown LA BLU MOCA Whitewash Protest // 01.03.2011 from jesse trott on Vimeo.

 

letterina (meglio, velina) a Michela Murgia che ha (criticamente) linkato sulla sua pagina di Facebook un articolo terribile, vergognoso…

l’insostenibile leggerezza del giornalismo

la Sardegna che vogliono da noi

Mi sembra di vederla quella giornalista che, spinta dalla necessità di piazzare un ‘pezzo’, si aggira con gli occhi spalancati alla Carfagna in un mondo di “minorati”, stupendosi che fra loro ci siano segnali di intelligenza. Ed allo stesso tempo, in cerca di una politically correctness, si arrampica sugli specchi della dolcezza del proprio sguardo inebetito.

Ecco a voi la Sardegna dei salotti, la Sardegna dei parvenants senza problemi… In fondo convertire i selvaggi è una missione che da sempre i padroni hanno nobilmente elargito ai sottoposti facendoli sembrare “quasi” simili a loro.

Il pezzo trasuda un paternalismo ed una superficialità insostenibili. Ma esprime bene il dramma di una generazione di ‘aspettanti’ individualisti, precari e perfetti per il “sistema stato-azienda”, per un mondo che investe più in apparenza che in storicità, più in feticcio che in sostanza, più in marketing che in ricerca, più in aspettative che in desideri, più in brame individuali che in utopie collettive.
Giusto la questione che sto cercando di affrontare di questi tempi e che anticipo qui molto superficialmente.

I miei ventiquattro lettori direbbero: “Eh, in cue ti nde kerìas falare! Nondum acerba est… dici così perché non ti cita…”. A costoro io risponderei: “Ha ragione di non inserirmi in quell’Empireo: io faccio poesia, e la poesia non è compresa nelle statistiche o nei fatturati… è come quando, dando i risultati elettorali si elencano i partiti che contano i voti e poi, in fondo, si indica genericamente “altri: 0,3 %”. E, ottimisticamente (sebbene non economicamente) potrei dire che: mi è andata bene. Sarebbe stato imbarazzante per la mia coscienza.

Cara Michela, a te chiedo piccolo favore: ti ho vista altre volte abbattere con colpi ben assestati simili giornalisti. A questo punto usa le tue arti per ottenere un’intervista e fai giustizia di questa penna immeritatamente affidatale. Fallo per me: se me ne fosse data l’occasione lo farei io per te.

Una nota finale: sono queste menti sfolgoranti che mi convincono sempre di più che noi con loro non abbiamo niente da spartire, e mi rafforzano nella mia sempre meno vacillante volontà indipendentista. Sempre che i sardi non scelgano altrimenti affascinati dal brillìo di quegli specchietti che ancora, mi risulta, restano in mano dei padroni.
Ed oggi è questo il nostro vero lavoro intellettuale.

E se qualche scettico non credesse alle mie parole, LEGGA L’ARTICOLO e si sforzi di cominciare a decolonizzarsi, ad emanciparsi dai racconti che questi padroni fanno di noi.

dignità, poffarbacco, dignità…