articolo uscito su “il Domani” per la morte di Gregory Corso

 

Per Gregory
di Alberto Masala

 

Amsterdam 1983.

La casa di Simon Vinkenoog, anziano poeta olandese ed esponente di rilievo dell’ondata beat in Europa, è una tranquilla villetta con grandi vetrate che danno su un giardino. Sarebbe una casa olandese come tante altre, non distante da uno dei tanti piccoli canali secondari di Amsterdam, se alle sue pareti non vi fossero appese opere dell’avanguardia artistica della seconda metà del secolo e se in un party a casa sua non si fossero incontrati personaggi della statura di Allen Ginsberg, William Burroughs e altri ancora.

Fu lì appunto, in un party nel 1983, che vidi per la prima volta un uomo dai capelli folti, gli occhi scuri e profondi, il viso intelligente da osservatore, non alto di statura, che si muoveva guardingo, avvolto in un elegante cappotto grigio di un paio di taglie superiori alla sua. Comparve e scomparve rapidamente due o tre volte nel giro di un’ora. Non si fermava a parlare con nessuno. Sembrava cercasse qualcosa di molto urgente. “Chi è?” chiesi all’americano più vicino “Gregory Corso” disse lui, accompagnando la risposta con qualche osservazione sarcastica che mi segnalò la sua mediocrità umana e, quindi, della sua poesia. Era il primo regalo che Gregory, inconsapevole, mi faceva: quello di farmi immediatamente prendere le distanze da quel “poeta” di cui non ricordo più nemmeno il nome.

Nei giorni seguenti, sempre ad Amsterdam, che in quegli anni era il centro della cultura alternativa europea e, grazie a “Soyo” Benn Posset, della letteratura d’avanguardia, riuscii ad intravederlo, ancora di sfuggita, ‘ovunque-succedesse-qualcosa’: alla presentazione dell’ultimo libro di Burroughs in una libreria con tanto di banda musicale e festoni di accoglienza nella strada, al party in onore di Adonis dato dall’ambasciatore libanese in Olanda dove fra camerieri in guanti bianchi e registrazioni d’archivio con la voce di Apollinaire diffusa nel salone, il signor Corso, smentendo la mitologia che lo accompagnava ovunque, era uno dei pochi americani presenti che non dava in escandescenze etiliche, che non rotolava sotto i tavoli né vi ballava sopra rompendo piatti e bicchieri (il massimo fu toccato in una terribile performance del rissoso Richard Brautigan), infine al Melkweg, al festival “One World Poetry”, diretto dal vecchio Benn, dove ero invitato in mezzo ad un gruppo di artisti (certo non per meriti poetici ma per uno di quei casi fortuiti che possono cambiare una vita), e dove io, giovane e timido, euforico e stordito per la presenza di tanti “mostri sacri”, venivo iniziato per la prima volta ai rituali dei raduni internazionali di poesia.

 

Bologna 1986/87.

Serena Urbani, Serena del Living Theatre, a Bologna viveva in via Manfredi.

Lì incontrai Gregory, che era stato chiamato ad inaugurare la “Fondazione Julian Beck”. Serena mi aveva chiesto di accompagnarlo in Romagna per leggere le traduzioni in italiano e stare con lui. Arrivò ubriaco e leggero come un fringuello. Judith Malina lo accolse all’ingresso della chiesa (immagino sconsacrata) in cui si teneva la cerimonia dicendogli con tenera fermezza: “Gregory, tonight it’s for Julian” (questa notte si fa qualcosa per Julian). Lui ricompose subito la sua faccia da scugnizzo di cinquant’anni (okay, okay) e salì gravemente a sedersi dietro il tavolo allestito sull’altare. “There is no god!” Non c’è dio! esordì con sarcasmo provocatorio, cominciando a dire a memoria una delle più belle poesie che gli ho mai sentito pronunciare. In purissimo stile beat, anarchico e dolcemente spietato. Continuò nella lettura con perfetta lucidità, quella stessa che era capace di ritrovare ogni volta che, anche nelle situazioni più precarie (alcool e additivi vari), si trattava di poesia. Era come se riuscisse a dilapidare con determinata ed infuocata noncuranza tutto della sua vita, tranne l’unica cosa che veramente era importante: la poesia.
Pochi giorni dopo si trasferì a casa mia dove fece base per alcuni mesi, riempiendo con disegni di gatti e di angeli le pareti della stanza di mio figlio Filippo (gli voleva molto bene perché diceva che somigliave al suo Max).

Girava continuamente per la città e tornava sempre come un bambino a raccontarmi entusiasta le sue scoperte di tracce del passato (credo che conoscesse la chiesa di San Petronio fin nei più minimi particolari). Rapidamente realista e surrealista insieme, sognava e rideva molto, usava la risata per smascherare le falsità, spietatamente implacabile, rischiando sempre un ceffone con la sua sfrontatezza.

Facemmo insieme ancora parecchie letture ed auto-interviste reciproche (qualcuna pubblicata). Chiudeva tutte le sue serate al Nowall, il locale di via delle Moline dove organizzavo incontri di poesia e di arte. Fra i tanti episodi voglio ricordare solo quello in cui, ad una serata patinata con tutte le autorità in prima fila che erano venute a vedere il “fenomeno”, cominciò la lettura pisciando dal palco con insolenza strafottente ed accontentando così l’audience affamata di beat e di gesti estremi da bohème. Non ci crederete: superato il panico, lo applaudirono comunque, spiazzandolo e scoraggiandolo a proseguire nella provocazione. Lo vidi invecchiato di colpo: ormai tutto di lui poteva essere riconvertito in gesto leggendario.


“Have a good life!…” fai buona vita, era il saluto sorridente che distribuiva con la dolcezza ironica di chi la sa lunga ed ha visto di tutto.

E Gregorio Nunzio Corso, come gli piaceva presentarsi dichiarando orgogliosamente le sue origini italiane, è uno che ha visto davvero tutto.

Chiudo qui traducendo per voi una sua poesia tratta dal libro Herald of the Autochthonic Spirit, che credo non sia ancora uscito in Italia. E’ davvero un regalo unico, perché Gregory, prima di leggere le sue poesie in pubblico, le correggeva quasi sempre (questo spiazzerà i biografi?)…. Ho qui la correzione di Bologna, pescata fra i libri che mi fece spedire dal suo editore (New Directions).

Have a good life!… eternal… Gregorio Nunzio Corso…

Bologna, gennaio 2001

HOW NOT TO DIE
(Come non morire – trad. Alberto Masala)

In mezzo alla gente
se sento che sto per morire
mi scuso
dicendo loro “Bisogna che vada!”
“Andare dove?” vogliono sapere
Io non rispondo
me ne vado da lì
lontano da loro
perché in qualche modo
percepiscono qualcosa di sbagliato
e non sanno mai che cosa fare
hanno paura di qualcosa d’improvviso
Che cosa terribile
starsene seduti lì
mentre ti chiedono:
“Stai bene?”
“Possiamo darti qualcosa?”
“Vuoi stenderti?”
Oddio! Ragazzi!
ma chi vuole morire in mezzo alla gente?!
Specialmente se non possono fare un cazzo
Al cinema – al cinema
è lì che scappo
a farmi una sega
quando sento che sto per morire
E finora ha funzionato

 

HOW NOT TO DIE

Round people
If I feel I’m gonna die
I excuse myself
Telling them “I gotta go!”
“Go where?” they wanna know
I don’t answer
I just get outa there
away from them
because somehow
they sense something wrong
and never know how to do
it scares them such suddenness
How awful
To just sit there
And they asking
“Are you okay?”
“Can we get you something?”
“Want to lie down?”
Ye gods! People!
Who wants die amongst people?!
Especially when they can’t do shit
To the movies—to the movies
that’s where I hurry to
and play with myself [1]
when I feel I’m going to die
So far it’s worked


[1] Verso autografo inserito a mano nella mia copia del libro. Ha molta importanza perché cambia completamente il finale.

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