Scritto per la raccolta Poesia a Bologna a cura di Giancarlo Sissa – ed. Gallo et Calzati, Bologna 2004

 

vent’anni di poesia a Bologna

Mi è stato chiesto di testimoniare, ma, purtroppo non ricordo quasi niente. E la logica non mi prepara alle domande perché ha deciso di non innamorarsi dei suoi padroni. Tutto è talmente sedimentato nel presente da sfuggire alla sfera della memoria per collocarsi in quella dell’esistenza. E dunque, non ricordo… ma vivo. E vive sono le immagini e le voci che ho sempre accanto. Farne una narrazione organica richiederebbe uno spazio davvero notevole, una testa che oggi non voglio avere, un libro intero. Quello che forse un giorno scriverò se sarò convinto che avrà una tale utilità da oltrepassare i pericoli di una sterile santificazione, se mi sentirò capace di tutelarne il racconto dall’orrore del museo, che sempre arriva ad espropriarne l’essenza, ad annichilirne la vita. E dalla storia, la gelida prostituta che aspetta i suoi morbosi clienti da soddisfare.

In questi ultimi vent’anni non ho fatto altro che vivere nella poesia. Negli anni precedenti nient’altro che prepararmi intensamente a questo.

Dunque posso procedere solo improvvisando, per lampi, risate, sorrisi, ma anche lacrime o rabbie… ricordare di certe bottiglie scolate fino all’ultima goccia e mai sufficienti ad esaurire i discorsi. E di come intanto ho visto crescere questa poesia, bella come una giovane anarchica di vent’anni, che ogni tanto passa da queste parti fermandosi a dormire sdraiata sopra il pavimento. Una che non ha logica né regole, che rifiuta di dare di sé un’impronta di “poesia“. Un animale che con le diable – quel pesante demone che sta seduto proprio sulle mie spalle – ha fatto un patto rabbioso di memoria. Una maldestra imitazione della vita, che, proprio come la morte, dispone e s’introduce ovunque spegnendo il tempo e facendo cadere le stagioni ad una ad una.

Ma questo è davvero interessante per qualcuno? Bisogna ricordare? La retorica di queste domande sta nel vederle pronunciate o riflesse negli occhi di un lettore e non in ciò che si è davvero speso.

Un altro fattore rilevante è che io non abito a Bologna … dove mi appoggio ormai da una trentina d’anni. Qui ho trasportato spesso il mondo che mi appartiene, qui sto, ma di passaggio. Però non abito più qui. Trasferisco da altrove le cose che qui vivo, oppure, da qui, le sposto altrove. Abitando in me stesso. Ormai sono soltanto io il luogo da cui vengo, e se parlassi di Bologna dovrei farlo parlando troppo di me, di quel nulla che si fa attraversare da Venezia, Amsterdam, Berlino, la Spagna, il Maghreb, Istanbul, la Sicilia, la Francia, gli Stati Uniti, i Balcani… e, sopra di tutto, la mia Sardegna perenne.

Sempre ostinatamente tornando a questa città senza vento, fatta per impedire il cielo, la luce, lo sguardo lungo.

A Bologna, come non succede da nessun’altra parte, l’intelligenza piove di scroscio ininterrotto. Ma queste strade ben impermeabilizzate non la sanno assorbire, questi portici ne nascondono i flussi, e quel poco che resiste, che non scorre veloce alle cloache, forma pozzanghere brillanti asciugate lentamente dal calore dell’indifferenza. A volte non lasciando nemmeno ricordo.

La mia memoria, al contrario, rimane umida come questo scritto, e “diventare feconda umidità” è il carico che ha assunto durante la sua marcia d’accumulazione. Umida di quella pioggia di intelligenze e di bottiglie che l’hanno confortata.

Dunque procedo per bottiglie? Potrebbe essere un’idea…

Beh allora… quella di vino rosso – osteria di Bologna con Adriano Spatola – si trasforma in una scura e insostenibile bottiglia di Unicum – bettola di Budapest – che lui si scola quasi tutta con l’effetto di bloccare il festival – e tutto il pubblico a cercare sotto le poltrone la carta d’identità che gli era caduta entrando. Cosa ci facevamo? “Poliphonyx” di Jean Jacques Lebel… nell’88 si faceva lì (non, come sempre, al Beaubourg) per riportare i poeti ungheresi – profughi del ’56 – a leggere dissenso con passaporto belga o francese – e parlavamo di salsiccia socialista popolare mentre Joel Hubaut ruttava dal palco l’intero alfabeto magiaro (ben 28 lettere). Dopo la mia lettura, in un’allegra colluttazione nell’atrio del teatro fui rapito e sbattuto in un taxi da una valchiria. Di me si persero le tracce per una notte e un giorno. Poco tempo dopo Adriano morì – ero distante, ma immaginai la sua morte come uno schianto enorme, e i fonemi liberati dal suo corpo di gnomo gigantesco che si spargevano nell’atmosfera come un flash lettrista… futurista… dadaista… ancora nelle mie orecchie ne girano alcuni… inestinguibili… AVIASIONNNNN… AVIATEURRRRR…

Le migliori bottiglie con Patrizia Vicinelli furono invece vuotate nel mio grande giardino della casa di Casalecchio, con Filippo (mio figlio) e Gió (suo figlio) che dormivano nel lettone dopo aver giocato tutto il pomeriggio, magari al fiume, alle cascate del Setta. A volte c’era anche Beltrametti, sempre di ritorno da qualche posto… la sua voce tranquilla riusciva a portare il piano del dialogo al sussurro…
Un paio di volte anche Giulia Niccolai… Corrado Costa… più spesso John/Gian, Rita degli Esposti, Giovanni d’Agostino… Franco ci portava notizie da New York o dalla West Coast… Giulia dai territori Zen della sua vita meditativa… Patrizia dagli abissi della poesia, dove sublime e terribile si fondevano vorticosamente. Nessuno sarebbe più stato capace di tanto. Stare con lei significava sentire echi intrasportabili altrimenti. Era spietata con la mediocrità, coraggiosa, sempre inesorabile. Una vera guerriera indomita e terribile che esponeva le ferite con una dignità senza confronti. Rendeva epico ogni gesto, perfino l’aria che la circondava, perfino il mio sguardo consapevole di ciò che stava incontrando…

Allora si facevano antologie e libri autoprodotti. Mai nessun editore avrebbe osato affrontare tanta paurosa bellezza. Sapevo che Patrizia aveva bisogno di pubblicare, di vivere, e sapevo anche dei rifiuti ricevuti. Dopo la sua morte, Vanni Scheiwiller, presentando postuma da Feltrinelli la raccolta completa degli scritti, disse: “faccio pubblica ammenda…” ma, come sempre e da sempre, troppo tardi.

Momenti gloriosi… andava “Milanopoesia” di Gianni Sassi… a Parma cominciava “diversi in versi” diretto da Daniela Rossi. Io ne presentavo la prima edizione.

Ma allora la cosa per me più notevole fu il festival “Ronky and Tonky” dentro l’ospedale psichiatrico Roncati. C’era bisogno di sollevare il problema della psichiatria e fui invitato dal collettivo degli infermieri ad organizzare un evento che mettesse le cose in chiaro alla città. Per un mese trasferii lì il mio ufficio e, con la collaborazione dei ricoverati, mi misi al lavoro. Di pomeriggio i dibattiti, al tramonto le letture di poesia, più tardi i concerti o il teatro. Piazzammo il palco proprio sotto le finestre del reparto tre, quello dei reclusi, dei letti di contenzione, delle camicie di forza. Tutta la città entrò al Roncati e, vedendo gli “spettacoli”, vide anche loro… che urlavano appesi alle sbarre. Fu uno scandalo, ma anche un bel colpo.

Poi venne il Nowall. Luogo di bottiglie, epicentro di quell’alcool che si diffondeva a grandi ondate, perfino mitiche, in tutta l’area dell’underground bolognese. Non ne faccio racconto. Rimando al mio recente “Geometrie di libertà” in cui se ne accenna diffusamente storia e percorsi. Qui dico solo che fu il primo luogo a Bologna che organizzava arte nel sociale e che, fra l’altro, ogni mercoledì a mezzanotte c’era un poeta che leggeva.

E ne passarono tanti… da Dick Higgins di Fluxus a Gregory Corso (che si fermò parecchi mesi a casa mia). Ma non è di questi che voglio scrivere: l’ho già fatto tante volte e non basterebbe una pagina a descrivere i percorsi delle bevute di Gregory e di tanti altri… qui preferisco citare solo la prima lettura di Giancarlo Sissa, Oceano alcool, con alla chitarra Stephan Schulberg, il gigante del Living Theater. Giancarlo quella sera, forse per non smentire il titolo della performance, beveva tanto whisky. Io molto meno, tant’è che sono proprio io quello che ne conserva ancora lucidamente i testi dattiloscritti che lui non fu più in grado di tutelare.

Era fra l’85 e l’88.

Io, influenzato da Linton Qwesi Johnson (che poi ospitai a Bologna), tenevo il mio primo vero e proprio concerto di poesia. In Montagnola, con un gruppo reggae. Non ce la cavammo troppo male. A quei tempi incontravo per la prima volta le poesie di Sante Notarnicola (Bologna se ne ricorda?) che presentai a Topía, da Bifo, e di Jack Hirschman che presentai al Masaorita (da Gianni Venturi). Con lui la prima volta fu vino greco aromatico e cantammo a squarciagola le canzoni di Teodorakis.

Abbiamo cambiato vini, finito con le grappe, e non ci siamo più lasciati. Ora mi traduce negli Stati Uniti.

Ma il nowall (no wall/now all) non era solo in via delle Moline. Ed io non ero solo al nowall: da lì lavoravo come referente italiano per la rete europea di Trans Europe Halles.

Nell’86 e 87 organizzai e diressi a Bologna (Caserme Rosse) le due edizioni di “d’art room”, il convegno-festival dei nuovi luoghi dell’arte in Europa, gli spazi occupati che producevano arte. Ed i poeti erano tanti, italiani e stranieri, e il pubblico, insieme a noi, visse un’esperienza notevole. Otto giorni ininterrotti di performances, concerti, letture… si beveva di tutto e, negli intervalli, molta birra (era d’estate). A notte fonda i poeti olandesi aprivano il pullman – trasformato in bar – e si andava avanti fino all’ora di colazione.

Gli olandesi erano condotti da ‘Soyo’ Benn Possett, l’organizzatore di One World Poetry di Amsterdam, il più grande e il più bello fra i festival di poesia del mondo. Fu grazie a lui, nell’83, quando mi invitò lassù, che cominciai a vedere, e poi ad incontrare, i Beats. Ma aprire anche questo capitolo mi costerebbe ancora pagine e pagine. Basta dire che Benn veniva ogni tanto a casa mia, a Bologna, e si cominciarono a creare importanti occasioni di connessione. E che da poco ho tradotto Jack Kerouac.

Nell’88 ci fu “no wall in berlin”, festival nell’ambito di Berlino, Città europea della cultura, alla Ufa Fabrik, dove ebbi per un po’ l’ufficio. Da Bologna partimmo in quaranta. E scoprimmo la tequila negra.

E anche il “Landjuveel 2000″ a Rujgoord, un villaggio completamente occupato da una grande comunità di poeti, la Amsterdam Balloon Company, quelli che venivano a d’art room” con il pullman. Da Bologna eravamo in nove. Letture nel villaggio e chiusura dell’ultimo giorno con un enorme rave di poesia e performances in uno sterminato polder reso ancora più immenso dalle psylocibe che venivano distribuite capillarmente. E birra, naturalmente.

Un altro evento da non dimenticare è “fermiamoci!”, il coordinamento pacifista contro la prima guerra nel golfo. La mattina dell’attacco americano, grazie a Valerio Monteventi che aveva messo a disposizione stanza e telefono, corsi a Mongolfiera. Non c’erano ancora le mail: un colpo a Serena Sartori del Living Theater, uno alla Cesarina (Stefano Casagrande) del Cassero, e tutto partì. Naturale centro di raccolta: Il Teatro del guerriero. Con la poesia a scandire resistenza cantandone la fragilità…

Bevevamo solo grappa. E non ci faceva effetto. Seduti sui binari, di notte, con mezzo metro di neve intorno, per bloccare i treni dell’esercito. O, sempre con la neve, in piazza Maggiore… nella tenda… solo grappa. Qualcuno thé… ma pochi davvero…

E gli anni del Montesino… ma questi li racconteranno certamente un po’ tutti, perché passarono di lì quasi tutti i poeti di Bologna. Era bello… ma non ricordo … anche perché lì non si poteva fare niente, poetico o no, che non fosse preceduto e seguito dal bicchiere. Vorrei vedere voi al mio posto.
Facevamo i libretti di poesia. Davvero belli. Ne cito solo due: l’antologia “con un sorriso indenne” per la sorella di Giancarlo e quello meraviglioso di Rosalia Calabrò.

E le case occupate del Pratello… La prima festa del Pratello… abitavo al 78.
Portammo i poeti in via Crucis a leggere osteria dopo osteria. Fino a distruggerli.
Invece al LINK non si beveva tanto (ero fra i fondatori). Infatti facemmo poche letture. Ne ricordo una, il memorial alberto masala in cui io, a corto di soldi, tenni un concerto di poesia con un gruppo di eccellenti musicisti. Fu come se dovessi commemorare la mia morte, ma lo facevo allegramente in vita. Il concerto fu bello e incassai parecchio. Un espediente che consiglio a tutti.

Cominciavo ad essere stanco. Ad accorgermi che mi ero dimenticato di fare dei libri. Avevo bisogno di toccare terra invece che cemento o asfalto. Pensate che a casa mia, in San Felice, insieme a Fabiola occupammo amorevolmente il giardino condominiale, incolto, trasformandolo in orto … pomodori, melanzane, zucchine … arrivammo perfino a vendemmiare il confinante pergolato della curia lasciato abbandonato: 33 litri, come gli anni di cristo, spremuti in cucina e fermentati in soffitta. Venivano molti poeti.

Al LINK, comunque, nel ’92 avvenne “Horizontal Radio”, un happening radiofonico internazionale che ha segnato la mia vita. Si svolgeva per 24 ore. Così:
a Linz, in Austria, c’era un centro di smistamento dei segnali che arrivavano da tutto il mondo e che venivano ritrasmessi, secondo un palinsesto orizzontale, sia su internet, sia via satellite, sia, soprattutto, sulle onde hertziane delle radio nazionali di tutti quei paesi nel mondo che avevano aderito al progetto. Questi, a loro volta, potevano rilanciare in differita su altri ancora. Io, dato che quando il ricevente apriva non sapeva cosa gli sarebbe arrivato, chiesi di emettere in diretta su radio Mosca, Sarajevo, Ankara. Mi fu accordato facilmente, dato che quelle stazioni non erano appetibili dagli altri. Chiesi ad Anton Roca, artista catalano e mio fraterno complice, di portare una sua scultura: una stanza di rame, chiusa da tutti i lati come una grande campana rovesciata, dal titolo Espai de la cancel.lació (spazio della cancellazione). Al suo interno feci entrare Antonio Are, altro mio complice e fratello, con su Cuncordu Bolothanesu, il gruppo a tenore, canto poetico rituale sardo. Questi, nascosti al pubblico dalle pareti della stanza di rame, cantarono in sardo un mio testo letto da Fabiola Ledda in tedesco e italiano. Un canto di saluto e solidarietà a Curdi, Bosniaci e Ceceni piratato in diretta dalla RAI sulle radio nazionali dei loro oppressori. Un colpo clamoroso ripreso e rilanciato più volte anche dalla radio tedesca, da Radio National de France, ecc… la metafora era: anche se rinchiudi un popolo, se questo sa cantare, se fa poesia, la sua voce uscirà più forte e vibrante. E il rame vibrava davvero … e anch’io: era la mia prima volta in sardo.
La birra scorreva a fiumi (fine maggio, ma faceva davvero caldo).

Dal titolo di quel poema nacque “minores”, l’etichetta poetica internazionale per la dignità delle culture, con cui sulla spiaggia di Rimini lanciammo “Notte Tribale”, l’incontro fra i poeti delle tribalità tradizionali e quelle metropolitane. E per me l’incontro con Lance Henson, poeta cheyenne, il mio primo lavoro con Serge Pey.
Anche con lui non ci saremmo più lasciati. Dalla “marche mondiale de la poèsie” alle celebrazioni per Artaud dentro la grotta des Lombrives. Ma questo non era a Bologna, anche se partivamo dal Montesino. Era il periodo del vino rosso, e, in pratica, non facevamo altro che spostarci dal Canonau per arrivare al Bordeaux e al Côte du Rône.
Ora sono io a tradurre Serge in Italia. E poi è importante anche perché fu laggiù che incontrai Hawad, il poeta tuareg.

Da questo momento tutto si confonde… i tempi sono troppo vicini… io non sono stato quasi più a Bologna… giro in tutta Europa, faccio i miei libri in Francia e negli Stati Uniti prima che in Italia… incontro altri poeti… ormai i miei compagni di strada non vengono più sepolti in questa citta. Non è vero, Izet (Sarajlic)?
E se guardo le mie note, vedo che qui, a Bologna, da circa dieci anni a questa parte ho fatto letture solo nei centri sociali, nelle manifestazioni, nelle occupazioni, nei comitati contro le guerre… nei luoghi in cui ancora qualcuno resiste e tenta di fare ricerca.

Che sia successo qualcosa? Che abbia davvero vinto Berlusconi? Che sia stata abolita la poesia? No, niente di tutto questo… Marco Ribani ha cambiato mestiere, Gilberto Centi non c’è più, io devo sopravvivere… e la poesia è diventata stitica, non olet, come la pecunia… non si produce più in pubblico… sta blindata nei centri, nelle corti, nelle accademie… ha paura di esporsi alla vita… ha paura che nasca un’altra Patrizia Vicinelli che possa dire a voce alta, davanti a tutti, guardando il poeta negli occhi: “Senti… sono qui ad ascoltarti da mezz’ora e non hai pronunciato una sola parola di poesia. Hai intenzione di andare avanti ancora per molto?”.

Ci prendono per fame e per stanchezza: loro possono stare comodamente seduti ad aspettare la nostra morte o almeno la nostra solitudine.

Tanto questa città non ha bisogno di poesia. E, in fondo, essere lasciati tranquilli è proprio quello che volevano.

 

A me non piace bere da solo.

Alla fine, una domanda: pensate di aver letto il prodotto di un delirio alcoolico?
Non è così. So amministrare le bevute: solo roba buona, e senza mai forzare, ma sempre ampliando i limiti. E reggo parecchio.

Che sia così anche in poesia? Lo spero.

 

 

Alberto Masala, 1 marzo 2004

 

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